sabato 1 settembre 2012

GLI ARRETRATI
Abbiamo potuto consultare le edizioni dei seguenti quotidiani nell’arco di tempo a fianco precisato, in quanto erano quelle ancora disponibili su Internet al momento in cui lavoravamo
- Repubblica dal 12.8 al 26.8
- La Stampa dal 16.8.al 26.8
- Corriere dal 19.7 al 26.8
- l’Unità dal 19.7 al 26.7
Qui di seguito si possono trovare gli articoli tratti da tali edizioni che ci sono parsi di qualche significato su alcuni dei temi di cui “Segnalazioni” è solita occuparsi. Li abbiamo suddivisi in quattro sezioni: “Politica”, “Holmes, Page e Breivnik”, “Filosofia e Cultura”, “La Bella Addormentata
Il lettore, continuando a scorrere questa pagina, troverà dapprima un indice di tutti questi articoli in ordine cronologico e suddivisi in sezioni, e, a seguire, tutti i testi integrali degli articoli messi in Indice, naturalmente nello stesso ordine che avrà trovato nell’Indice. Una parte degli articoli invece - per motivi tecnici - sono stati pubblicati in Pdf su Scribd, e in tal caso viene indicato ogni volta con un “qui” il link relativo.
Una volta individuato nell'indice l'articolo che interessa leggere, naturalmente si può velocizzare la ricerca del testo relativo inserendo una o più parole chiave nel motore di ricerca interno.

(Ringraziamo per le loro segnalazioni Monica Angelini, Noemi Ghetti, Cristina Ghezzi, Francesca Iannaco, Francesco Maiorano)

INDICE DEGLI ARTICOLI

1. POLITICA
Corriere 19.7.12
«Nel 2013 un governo del tutto rinnovato Le primarie? Non escludo il doppio turno»
Bersani: io organizzo i progressisti, sono sicuro che Vendola non mancherà
di Aldo Cazzullo

l’Unità 1.8.12
Europa, lavoro, uguaglianza e diritti
Pubblichiamo ampi stralci della Carta d’Intenti, presentata ieri da Pier Luigi Bersani come base per un Patto dei Democratici e dei Progressisti
qui

Corriere 10.8.12
«Udc brava, l'omofobia è in una parte del Pd»
Crocetta: con i centristi intesa su tutto Io, omosessuale, in chiesa ogni domenica
di Felice Cavallaro

La Stampa 17.8.12
Fassina: “Colpire i grandi patrimoni per ridurre l’Irpef”
di Carlo Bertini

Corriere 20.8.12
Impegno dei cattolici in politica La lezione che viene da De Gasperi
di Dario Antiseri

Corriere 20.8.12
Sesso e politica, bufera su Crocetta «Voto di castità se eletto governatore»
«Vendola non mi appoggia. Ma non per invidie tra gay»
di Alfio Sciacca

l’Unità 22.8.12
Nell’eredità di Togliatti c’è qualcosa di utile al Pd
di Michele Prospero
qui

l’Unità 25.8.12
Togliatti non appartiene all’eredità del Pd
di Arturo Parisi
qui

l’Unità 26.8.12
Perché Togliatti e De Gasperi sono un’eredità per il Pd
di Gianni Cuperlo
qui

La Stampa 22.8.12
Lo scontro senza quartiere che dilania la sinistra
Sulle intercettazioni del Quirinale, contrapposti politici, magistrati e intellettuali
di Federico Geremicca

Repubblica 24.8.12
“Monti ha fatto un gran lavoro ma è una parentesi non ripetibile il Pd è pronto a governare”
Bersani al premier: cambi passo o l’Italia non si salva
Intervista di Massimo Giannini

Corriere 26.8.12
Il candidato Crocetta perfetto per un reality show
di Aldo Grasso

La Stampa 26.8.12
L’elogio di Togliatti aumenta la distanza tra Pd e prodiani
Parisi vicino all’addio, Prodi assente alla festa del partito
di Fabio Martini

2. HOLMES PAGE E BREIVIK
Corriere 21.7.12
Con due fucili al cinema «Pensavamo fosse il film Lui gridava: sono Joker»
Denver, strage alla prima di Batman: 12 morti e 59 feriti Il killer ha 24 anni. «Era calmissimo mentre uccideva»
di Paolo Valentino

Corriere 21.7.12
James, lo studente timido e isolato L'attacco ispirato da un fumetto
Nell'annuncio per la casa si definiva «tranquillo, senza pretese»
di Guido Olimpio

Corriere 21.7.12
L’America quieta tra natura e sobborghi
di G. O.

Corriere 22.7.12
Il Colorado e la lezione inascoltata di Columbine
di Guido Olimpio

Corriere 7.8.12
Il killer dei sikh: un razzista bianco con l'11/9 tatuato
La Casa Bianca: esame di coscienza
di Massimo Gaggi

La Stampa 24.8.12
Psichiatri, guerra a colpi di perizie sullo stato mentale dell’omicida
Sano di mente o schizofrenico: i rapporti dei medici rovesciati più volte
di Francesco Saverio Alonzo

Repubblica 24.8.12
“Pazzo, esaltato o sano di mente” Oslo si ferma per la sentenza Breivik
L’estate scorsa uccise 77 persone. Rischia al massimo 21 anni di carcere
di Pietro Veronese

Repubblica 25.8.12
“Volevo uccidere di più” L’ultima sfida di Breivik dopo la condanna a 21 anni
Massimo della pena per le stragi di Oslo. “È sano di mente”
di Pietro Veronese

Repubblica 25.8.12
“È il male e non la follia” il coraggio di una nazione che non cerca attenuanti
Così la Norvegia ha perso la sua innocenza
di  Adriano Sofri

La Stampa 25.8.12
Il Paradiso norvegese che ha scoperto il Male
Lo scrittore Nesbo: cambierà il nostro modo di pensare
In Norvegia la letteratura del Male ora deve fare i conti con la realtà
di Mario Baudino

La Stampa 25.8.12
La gravità delle pene
di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa 26.8.12
“Per Breivik bastano 21 anni Ha vinto la civiltà norvegese”
A Oslo fra i parenti delle vittime di Utoya: “Nessuno tornerà su quell’isola”
di Giovanni Cerruti

3. FILOSOFIA E CULTURA
Corriere 21.7.12
Albert Einstein, un gigante sulle spalle di molti nani
Jürgen Renn: «Fu una comunità scientifica a scoprire la relatività»
di Nuccio Ordine

l’Unità 21.7.12, è un Sabato, il quotidiano esce nelle edicole con LEFT
Riprendersi la speranza
Parla Alessandro Barban priore di Camaldoli
La crisi vista dal convento in cui fu elaborato il famoso Codice
di Roberto Monteforte
qui

l’Unità 23.7.12
La politica secondo Karl
Studiare Marx economista non dimenticare il filosofo
Questo confronto riprende le discussioni degli anni Ottanta. Ma evidentemente
il problema non è stato risolto
Si rischia di accantonare la complessità dell’analisi sul lavoro e la produzione All’origine della rimozione le teorie di Hannah Arendt
di Luca Baccelli
qui

l’Unità 24.7.12
Il viaggio più difficile
I filosofi guardano al flusso della vita come a un «andar via di qua»
Da Morin a Curi tanti i saggi che si interrogano sulla morte, come fine definitiva dell’esistenza o passaggio a qualcos’altro
di Gaspare Polizzi
qui

Corriere 24.7.12
Il Vangelo e Confucio un incontro mancato
Perché venne dispersa l'eredità di Matteo Ricci
di Paolo Mieli

Corriere 26.7.12
Il patto segreto tra Chiesa e Duce
Per difendere l'Azione cattolica, Pio XI subì la svolta razzista
di Francesco Margiotta Broglio

Corriere 28.7.12
Amore, un demone ambiguo
Passione, dannazione, vanità: da Paolo e Francesca a Narciso
di Aldo Grasso

l’Unità 29.7.12
Giocare a «fare» Dio e creare la vita
Esiste già il marchio: si chiama biologia sintetica
di Pietro Greco
qui

Corriere 31.7.12
Eco che amò Narciso (e lui solo se stesso)
La ninfa stregata dalla bellezza di lui Il rifiuto, la fuga e la tragica fine
di Armando Torno

Corriere 1.8.12
Un fantasma si aggira per l'Europa Ritorna Karl Marx (il filosofo)
di Giuseppe Bedeschi

l’Unità 4.8.12 è un Sabato, il quotidiano esce insieme a LEFT
Come sono diventato cristiano
«La trascendenza è l’antidoto al pensiero unico»
di Pietro Barcellona
qui

l’Unità 9.8.12
Le buone idee della scuola di Bari
Quel «comunismo» è valido ancora oggi
Anni sessanta Lo scambio di lettere tra Biagio
De Giovanni e l’allievo Marcello Montanari raccolto in un libro-confessione sull’incontro scontro tra filosofia e politica
di Pasquale Serra
qui

Corriere 10.8.12
Camus e l'Algeria: la Francia litiga ancora. Dopo 50 anni
dal nostro corrispondente Stefano Montefiori

l’Unità 12.8.12
Pietro Ingrao a Venezia Con un film-intervista di Filippo Vendemmiati
Il regista: «È un ragazzo che non ha mai smesso di sognare
E i suoi suggerimenti non sono stati ascoltati»
di Valerio Rosa
qui

Repubblica 13.8.12
Perché i fatti restano finché c’è un pensiero
Il dibattito sul Nuovo Realismo/ Serve che ci sia una memoria per ricordarli
di Eugenio Scalfari

Corriere 14.8.12
Lou Salomé, la russa che si negò al superuomo
Il grande amore (fallito) di Nietzsche che ispirò «Così parlò Zarathustra»
di Armando Torno
La Stampa 14.8.12
La versione di Gabriele “In missione per conto dello Spirito Santo”
Lo psichiatra: suggestionabile e pericoloso
di Gia. Gal.

Corriere 15.8.12
Com'è difficile fare gli italiani
Per secoli papato e impero impedirono la creazione di una coscienza nazionale
di Sergio Romano

Repubblica 15.8.12
La morale della filosofia
Diversi studiosi affrontano il tema di come si possa stabilire quando un comportamento è lecito
Dalla vaghezza alla responsabilità come riconoscere i confini dell’etica
di Franca D’Agostini

Repubblica 15.8.12
Perché l’Europa inventò i processi alle streghe
Un libro ricostruisce la persecuzione che durò quasi tre secoli, riguardando tanti paesi
di Agostino Paravicini Bagliani

Repubblica 17.8.12
Dimenticate i cinque sensi adesso sono almeno dieci
Il saggio di un ingegnere, che si basa su chimica, fisica e neurofisiologia, sostiene che non sono solo cinque ma molti di più
Tu chiamale se vuoi percezioni
Oltre la vista e l’olfatto, i sensi sono almeno dieci
di Piergiorgio Odifreddi

Repubblica 17.8.12
Ma Kant e Spinoza non diventanp pop
Il dibattito su rassegne e festival dedicati alla filosofia
di Roberto Esposito

Corriere 18.8.12
Perché l'ignoranza ci rende liberi
La competizione tra le idee è il solo rimedio ai limiti della conoscenza
di Dario Antiseri

Repubblica 18.8.12
L’artista, che ha spesso messo al centro del suo lavoro il rapporto con le passioni, spiega come sia possibile superare l’abbandono
Separazioni pericolose
Sappiamo che ‘per sempre’ non significa niente eppure dobbiamo arrenderci allo stato di innamoramento
Abramovic: “Condividere il lutto sentimentale ci aiuta a sopportarlo”
di Elena Stancanelli

La Stampa 19.8.12
Decrescita felice e socialismo utopistico
di Guido Ceronetti

Repubblica 19.8.12
“Scoprite le vite di Spinoza e Leibniz i pistoleri più veloci del West (filosofico)”
di Alessandro Baricco

Corriere 20.8.12
La vittoria postuma di Basaglia
Un innovatore calunniato che ha cambiato la psichiatria
di Corrado Stajano

La Stampa 20.8.12
Marx, uno spettro pop s’aggira in libreria
Tempi di crisi, ritorna il padre del “socialismo scientifico”: anche a fumetti, o in versione detective story, o come (tostissima) favola per i più piccini di Massimiliano Panarari

Corriere 21.8.12
Quel duello per l'onore del grande matematico
Le lettere di Galois alla figlia del medico «Ma era un civetta, e lui fu disgustato»
di Armando Torno

Corriere 21.8.12
Croce e Gentile, amici della scienza
Il ritardo dell'Italia non è colpa dei due filosofi. Ma comincia negli anni Sessanta di Alessandra Tarquini

Repubblica 21.8.12
“Un frate salvò i manoscritti di Husserl”

La Stampa 21.8.12
Le ultime lettere di Nicola & Bart
Il 23 agosto 1927 gli anarchici Sacco e Vanzetti (in)giustiziati in America
Negli scritti dal carcere il dramma giudiziario e le loro motivazioni ideali
di Giorgio Boatti

La Stampa 21.8.12
Per non restare analfabeti filosofici
Dai festival ai café philo , quel che sale è la richiesta di applicare il “sapere logico e teoretico” alla vita pubblica e individuale
di Franca D’Agostini

Corriere 22.8.12
Pedofilia, assolto il Vaticano «I preti non sono dipendenti»
di Gian Guido Vecchi

La Stampa 22.8.12
L’universo e i suoi fratelli
Non è più infinito ed eterno, in compenso si è moltiplicato
Ma nell’ipotesi di un “multiverso” noi dove siamo?
Un libro del cosmologo John David Barrow
di Piero Bianucci

Corriere 23.8.12
«La poesia tedesca è nata ad Atene»
L’addio della Grecia sarebbe una sciagura
di Martin Walser

Repubblica 24.8.12
Applicare la logica al discorso pubblico
Due saggi rilanciano l’importanza di questa disciplina
di Franca D’Agostini

Corriere 23.8.12
Pisacane patriota e rivoluzionario
di Arturo Colombo

Corriere 25.7.12
Amore e morte su un ponte di Roma
La ballata di Peggy e Peter I due giovani vagabondi sopraffatti dal loro amore
di Emanuele Trevi


Repubblica 25.8.12
La ricerca dell’assoluto che chiamiamo “passione”
Un saggio di Maria Bettetini e le metamorfosi del sentimento viste dai filosofi
di Maurizio Ferraris

Repubblica 26.8.12
Linee che portano alla fine del mondo
Cronos. L’immagine del tempo
di Paolo Mauri

4. LA BELLA ADDORMENTATA
l’Unità 27.7.12
Tre italiani a Venezia
Bellocchio, Comencini e Ciprì in lizza nella sezione ufficiale
di Alberto Crespi
qui

Corriere 28.7.12
La scelta di Bellocchio: sette giorni nell'Italia di Eluana
«Ma è finito il tempo dei film di denuncia»
di Paolo Mereghetti

Repubblica 22.8.12
Il regista parla del film “Bella addormentata” con cui sarà in gara alla Mostra di Venezia
Parla Bellocchio
“Racconto l’Italia del caso Englaro senza offendere nessuno”
di Natalia Aspesi

Repubblica 14.8.12
Huppert, Divina Madre al capezzale della figlia nel film di Bellocchio
“In Francia si parla di eutanasia, ma senza Vaticano”
di Laura Putti

I TESTI:

POLITICA

Corriere 19.7.12
«Nel 2013 un governo del tutto rinnovato Le primarie? Non escludo il doppio turno»
Bersani: io organizzo i progressisti, sono sicuro che Vendola non mancherà
di Aldo Cazzullo

«È tempo di concentrarci sul Paese, perché si sta facendo dell'Italia il punto di leva per ribaltare il carro dell'euro. O stringiamo almeno le cose che si sono decise, o dobbiamo farci dare qualche margine in più per fronteggiare una recessione che sarà durissima. L'Europa chiede una soluzione al quesito dell'affidabilità dell'Italia. È tempo che la politica si prenda le sue responsabilità: le eccezionalità non danno mai una percezione di affidabilità. Si deve smettere di chiedere: "E dopo Monti cosa succede?". Predisponiamo un percorso e una competizione: centrodestra contro centrosinistra. Proporrò con le primarie un'offerta di partecipazione per la scelta del leader. E avanzerò una proposta di serietà e rigore con dentro il cambiamento: un governo larghissimamente rinnovato, che dia all'Italia la sensazione di avere energie nuove in campo. Un colpo di reni».
Segretario Bersani, partiamo dall'inizio. Sta dicendo che, se non scattano le misure anti-spread, l'Italia deve poter spendere di più per la ripresa?
«È senza ripresa che spendiamo di più! Noi siamo la cavia dell'attacco all'euro. Lo dice il governatore Visco: 200-250 punti di spread ce li meritiamo; gli altri vengono dall'attacco mirato contro di noi. O troviamo un meccanismo europeo che ci protegga, oppure, siccome siamo gli unici vincolati al pareggio di bilancio in tempi così rapidi, dobbiamo ottenere un margine per fronteggiare la recessione. Saprei anche dove mettere le risorse».
Dove?
«Negli investimenti che portano subito lavoro e innovazione: ossigeno agli enti locali per le piccole opere, casa, efficienza energetica, agenda digitale».
Lei parla di un «governo larghissimamente rinnovato». Questo significa che in caso di vittoria del centrosinistra non ci sarebbe spazio per gli attuali ministri?
«A parte alcuni presìdi essenziali di esperienza, punteremo su una nuova classe dirigente, una nuova generazione. Non sarà un salto nel buio: è gente che ha già fatto esperienza amministrativa».
Nomi?
«Non ne faccio. Ma ce li ho in testa tutti».
E Monti che farà? Potrebbe avere un futuro alla Ciampi, che fu premier di un «governo del presidente» e poi ministro dell'Economia di un governo di centrosinistra?
«Come si dice in questi casi, Monti è una grande risorsa per il Paese. Non spetta a me stabilire quel che farà, ma a lui. La questione "quanto di Monti deve restare dopo il 2013", che viene posta anche nel mio partito, non tiene conto che questa maggioranza parlamentare non ha un indirizzo univoco. Monti intanto va ringraziato per aver preso in mano un Paese sull'orlo del precipizio. Fa i suoi errori, come tutti. Io gli sono leale; anche per questo credo di aver diritto di segnalarli. Ma Monti è il pompiere. L'incendiario è un altro».
Il ritorno di Berlusconi rende impossibile le grandi intese nel 2013?
«Per l'amor di Dio! Qualunque sia il leader della destra, l'Italia ha diritto a una democrazia che funzioni con due polmoni, a uscire dall'eccezionalità. Il fatto poi che ci sia Berlusconi è grave perché il mondo ci guarda, e può pensare: davvero gli italiani ritornano lì? Vorrei tranquillizzare tutti: Berlusconi non vincerà. Né vogliamo passare mesi a pane e Berlusconi, con le sue donne e i suoi processi. L'Italia ha altri problemi».
Quando si faranno le primarie? E come?
«Vediamo di dire una parola definitiva. Io voglio le primarie. Le voglio di coalizione: partiti, associazioni. Benché sia il candidato statutario del Pd, non pretendo di essere il candidato esclusivo. La data non la decidiamo da soli. Immagino che non sarà né troppo lontana né troppo vicina al voto: diciamo entro fine anno».
Farete primarie a doppio turno, come in Francia?
«Anche le regole non le decidiamo da soli. Non lo escludo affatto. Ne discuteremo».
Quali sono i suoi sentimenti nei confronti di Renzi?
«Io gli voglio bene. Vorrei che pure lui volesse bene, non pretendo a me, ma al Pd. E venisse a dire in casa le cose che invece dice fuori».
E di Grillo?
«Grillo è dentro le insorgenze populiste e semplificatrici che da due anni emergono in tutta Europa. Partono da istanze anche giuste e crescono ammucchiando cose indistinte, in cui non c'è più destra né sinistra. Quel che ha detto Grillo della Bindi non è "voce dal sen fuggita". Si mette in rete quel che si pensa solleciti la pancia del Paese. Io rifiuto in radice questo schema. E ricordo che le prossime elezioni non saranno solo una scelta politica ed economica. In qualche misura saranno anche una scelta di civiltà. E allora bisogna combattere. Se farò un governo io, la sua prima norma riguarderà il diritto dei figli di immigrati nati qui e che studiano qui in Italia a chiamarsi finalmente italiani».
Con quali alleanze affronterà il voto? Non crede che dovrà scegliere tra Casini e Vendola?
«Io sono progressista. Organizzo il campo dei progressisti. Sono sicuro che Vendola sarà dentro questo quadro, che non è solo dei partiti ma anche dei civismi. E mi rivolgo ai moderati. A chi si oppone a Berlusconi, Lega e Grillo, che ci vorrebbero fuori dall'euro, dicono che non si devono pagare i debiti, sono contro gli immigrati».
Ma l'alleanza si farà prima o dopo il voto?
«Casini organizzi il suo campo. Quando ci saranno le elezioni, e quando conosceremo il meccanismo elettorale, vedremo le condizioni concrete di questa proposta. Quando lanciai, due anni fa, un'alleanza tra progressisti e moderati, mi guardavano come se fosse lunare. Invece ci avevo visto».
Tra i moderati c'è anche Fini?
«Non voglio ammucchiate, non sposo nessuno. Vedremo come si organizzerà il loro campo. Propongo un patto di legislatura, per salvare il Paese e riformare la Costituzione senza stravolgerla».
Ci sarà una lista civica a fianco del Pd?
«Non penso a una lista civica. Penso a un patto con i civismi e le cittadinanze attive: la politica si concentra sui grandi temi, e si ritira dai luoghi impropri. Quel che abbiamo fatto alla Rai lo faremo negli altri Cda, nelle Asl, nelle giunte. Perché dev'essere un partito a nominare gli assessori? Dove è possibile sostituiamo al controllo politico quello sociale, partecipativo, democratico. Decidano i cittadini, gli utenti».
Siete disposti al ritorno al proporzionale?
«Noi siamo per il doppio turno. Ma gli altri non lo vogliono. Non vogliono neppure i collegi uninominali maggioritari. Però non ci arrendiamo al Porcellum. Siamo pronti a discutere. Con due paletti. La sera delle elezioni gli italiani devono capire chi governerà, se no sarebbe un disastro, anche per l'Europa; questo implica un premio di governabilità a chi arriva primo, che sia una lista o che siano liste collegate. E i cittadini devono poter scegliere i loro rappresentanti».
Anche con le preferenze?
«Le preferenze fanno aumentare enormemente i costi e questo non piacerebbe agli italiani. E costruiscono un rapporto cittadino-parlamentare molto labile. Meglio piuttosto il sistema delle provinciali, con base significativamente proporzionale ma con i collegi, in cui il partito si presenta con il volto di una persona che può radicare un rapporto con il territorio».
Tra gli errori di Monti c'è anche qualche capitolo della «spending review»?
«Sì. La semplificazione istituzionale e della Pubblica amministrazione si può addirittura rafforzare, ma alcuni meccanismi su sanità e servizi locali rischiano di punire i virtuosi e premiare quelli che sforano. Chiedo di essere ascoltato, come quando lanciai l'allarme sugli esodati. A volte possiamo dare una mano a evitare guai. Fermi restando i saldi, propongo un confronto tra regioni, enti locali e governo per correggere i meccanismi e scrivere entro due mesi un patto da recepire nella legge di stabilità».
Vista la situazione drammatica del Paese, non è un errore che il Pd metta in scena una rissa su un tema pur importante come le nozze gay?
«Siamo l'unico partito che discute sul serio. Non sempre i modi di discutere mi piacciono. Ho visto forzature e personalismi. La chiudo lì: noi proponiamo le unioni gay, nei dintorni della soluzione tedesca. A chi dice che è troppo, rispondo che non possiamo restare fermi alla legislazione di Cipro e Turchia. A chi dice che è poco, rispondo che chi vuol saltare tre scalini alla volta rischia di rimanere al palo. Ricordo che viviamo in un Paese dove non è stato ancora possibile approvare una legge contro l'omofobia».

l’Unità 1.8.12
Europa, lavoro, uguaglianza e diritti
Pubblichiamo ampi stralci della Carta d’Intenti, presentata ieri da Pier Luigi Bersani come base per un Patto dei Democratici e dei Progressisti
qui

Corriere 10.8.12
«Udc brava, l'omofobia è in una parte del Pd»
Crocetta: con i centristi intesa su tutto Io, omosessuale, in chiesa ogni domenica
di Felice Cavallaro

PALERMO — Da omosessuale dichiarato, l'ex sindaco di Gela candidatosi alla guida della Regione siciliana, incassato l'inatteso e per molti sorprendente sostegno dell'Udc di Casini, ha sparato a zero «contro le checche spesso annidate a sinistra...».
«Meglio parlare di cripto-checche mascherate in qualche frangia integralista. Beh, sì, anche nel Pd e non solo».
Si diverte a stuzzicare e puntualizzare, ad alternare ossimori e paradossi, eccentrico ma concreto e determinato com'è Rosario Crocetta, eurodeputato pd, in passato comunista con Diliberto, eppure cattolico praticante, una storia politica costruita sull'impegno antimafia, sobrio, un pudore che si specchia in un modo di vivere estraneo ad ogni ostentazione, una faccia antica, quasi un dagherrotipo da album comunista, somiglianza impressionante con Di Vittorio.
Ma davvero pensa che su questo piano l'Udc di Casini sia più avanti del suo partito?
«Dico solo che in alcune parti del Pd la componente omofoba è più alta che nell'Udc. Partito schieratosi senza indugi per un candidato dichiaratamente omosessuale da sempre, ben visto dal mondo cattolico perché io non ho mai fatto scandali, conduco una vita giudicata irreprensibile, mi batto per valori importanti come la legalità e voglio seriamente cambiare le cose in Sicilia».
Si troverà d'accordo con Casini, infastidito dall'ipotesi dei matrimoni gay, con l'Udc che al massimo parla di garanzie per le coppie?
«Non estremizzo. Diversi Paesi hanno regolamentato la materia. Su matrimonio o unione civile il dialogo è aperto. Non bisogna creare uno scontro. Il muro contro muro finisce per provocare chiusure. Adelante con juicio».
A qualche suo amico apparirà poco rivoluzionario.
«I veri rivoluzionari sono quelli che discutono. La penso come Don Ciotti: bisogna unire il cielo e la terra. Comunque, alla Regione non si fanno mica le leggi sui matrimoni».
Già, chi vince dovrà occuparsi soprattutto dei conti in rosso.
«Dei precari, della famiglia, delle minoranze e su questo scatta l'intesa con l'Udc. Chi come me ha fatto il sindaco sa che i problemi sono quelli di chi deve sfamare i bambini, dell'emigrato di Lampedusa, della Regione che scoppia, del lavoro che non c'è, della mafia che incendia i cantieri...».
Una proposta per la campagna elettorale?
«Il codice etico: niente indagati per mafia nelle liste. Vado ben oltre il rinvio a giudizio. E, a differenza di altri, l'Udc ha già recepito».
Eppure, la sorpresa di questa intesa con l'Udc sembra legata allo snodo dei gay...
«Mi auguro che un giorno si possa parlare solo di persone, fuori dalla sfera intima di ognuno di noi. Pensiamo davvero che l'Udc sia pronta a mettere al rogo gli omosessuali? Ma siamo fuori dalla grazia di Dio. Né la Chiesa è mai stata su questa posizione».
I suoi rapporti con i sacerdoti?
«In chiesa ogni domenica. Studiavo dai salesiani. La mattina alla Messa delle 7, poi a piedi a scuola, per risparmiare il biglietto d'autobus e comprare il panino a ricreazione. Famiglia povera».
Si confessa?
«Sempre. Con don Luigi Petralia, parroco di Santa Lucia, il quartiere che chiamavano il Bronx di Gela, dove faccio volontariato nel comitato pastorale della mia parrocchia».
Nella sua stessa area si è autocandidato pure Claudio Fava che la attacca perché la ritiene vicino a Raffaele Lombardo.
«Mai votato per Lombardo. Io non faccio sceneggiature, immerso nei problemi quotidiani. Le fa lui, e le fa per la Fininvest beccando soldini da Berlusconi, ma non appartiene a me la cultura del sospetto...».
Eppur sospetta...
«Cosa dice? Io pronto al dialogo anche con Fava. Gli voglio bene. È una manifestazione d'amore. E spero che la dichiarazione di un gay non lo turbi, come succede in certi circoli intellettuali dove quasi tutti alla fine sono bacchettoni».

La Stampa 17.8.12
Fassina: “Colpire i grandi patrimoni per ridurre l’Irpef”
di Carlo Bertini

ROMA Sostiene Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che a muovere la mano del premier per fargli cancellare con un tratto di penna le speranze degli italiani non siano state «le bacchettate dei falchi della Bundesbank, perché ogni scelta sarebbe a invarianza di gettito. A rendere ora impraticabile un intervento sulle tasse è solo un problema politico».
È evidente che a voi non sarebbe dispiaciuto fare qualcosa subito...
«Ci sono due punti fondamentali da chiarire: il primo è che se non cambia la rotta di politica economica europea e di austerità depressiva, è insensato sperare in effetti positivi di qualunque intervento fiscale. Ai fini dello sviluppo, la priorità è cambiare la rotta di politica economica, altrimenti diventa un esercizio illusorio quando si ha uno spread stabilmente sopra i 400 punti».
Ma tagliare le tasse non comporterebbe effetti virtuosi sullo sviluppo?
«Ci arriviamo tra un attimo. Intanto andrebbe sostenuto lo sviluppo. Come? Con scelte diverse in Europa, a cominciare dall’unione fiscale come premessa per dotare il fondo salvastati di una licenza bancaria che consentirebbe di finanziare investimenti con eurobond. Poi la seconda considerazione è che noi del Pd vorremmo recuperare subito risorse dall’area dell’evasione e dei grandi patrimoni. Ma tra destra e sinistra ci sono visioni diverse dell’equità e un governo che si regge su forze che hanno impianti culturali alternativi non può fare riforme del genere».
Quindi secondo voi con una patrimoniale strutturale sulle grandi ricchezze si potrebbero trovare subito risorse per abbassare le tasse?
«Sì, sarebbe un primo passo significativo per migliorare il potere d’acquisto delle famiglie a reddito più basso, facendo così un’operazione di equità e al contempo di sviluppo, per sostenere la domanda, i consumi e gli investimenti. Un intervento sull’Irpef si potrebbe fare in vari modi, agendo sulle detrazioni e su alcune aliquote. Però il Pdl, come tutte le forze conservatrici, ha una visione diversa dalla nostra. Noi proponiamo un’aliquota più elevata dell’attuale Imu sui patrimoni di valore superiore a 1,2 milioni di euro, con un’operazione che consentirebbe di recuperare circa 5 miliardi l’anno, non solo per eliminare l’Imu sulle prime case, ma per interventi significativi di riduzione del carico fiscale su una platea ampia a basso reddito. Aumentare dunque le aliquote da 0,5 fino all’1% sui patrimoni più elevati, potenziare la lotta all’evasione abbassando ancora la soglia del contante e quindi la tracciabilità, ecco cosa faremmo se fossimo al governo».
Le piace l’idea di Casini di un patto per il rigore tra le forze che sostengono il governo per dare continuità all’azione di Monti dopo il voto?
«Noi abbiamo una storia inequivocabile di grande responsabilità sul fronte della finanza pubblica e non abbiamo bisogno di sottoscrivere alcun documento: abbiamo un curriculum ineccepibile e un impegno ribadito autonomamente nella Carta d’intenti da Bersani. Se l’interlocutore di Casini è il Pdl, ha qualche ragione a preoccuparsi, perché loro hanno sempre fatto aumentare il debito pubblico quando hanno governato».

Corriere 20.8.12
Impegno dei cattolici in politica La lezione che viene da De Gasperi
di Dario Antiseri

Che un partito di cattolici non debba nascere è un dogma appeso al nulla. Che non ci siano le condizioni perché esso nasca è una falsità bell'e buona. Le condizioni storiche e sociali in cui gli uomini operano non sono realtà metafisiche legate ai capi dell'eternità. Sono, piuttosto, realtà fattuali da combattere o, eventualmente, da creare. Che cosa fece don Sturzo? E, dopo di lui, De Gasperi non creò un partito di ispirazione cristiana cui si deve la ricostruzione del nostro Paese? Certo, va ribadito che oggi non c'è più quel «grande nemico» che premeva dall'esterno. E, tuttavia, se i barbari non premono più ai confini, ai nostri giorni tribù barbare si agitano in mezzo a noi. Affollati di barbari risultano partiti incapaci di concepire il potere come potere di risolvere i problemi della gente, ma sempre scrupolosamente attenti ai propri privilegi. Sono loro la cattiva politica che genera quella che chiamano l'antipolitica, e pretenderebbero di farci chiudere gli occhi sul fatto che Grillo è il loro figlio primogenito. Barbari nel Palazzo, la cui irresponsabile cecità schiude la caverna in cui ibernano altri barbari assetati di violenza e pronti a cavalcare prevedibili, pur se non auspicabili, proteste, talvolta anche giustificate, di folle di disperati. E mentre da una parte monta una protesta senza proposta, dall'altra l'intellighenzia cattolica si riunisce a Todi e discute. Discute e non decide; rimanda ad altri incontri; e si contorce in ulteriori dispute. Nel frattempo, Saguntum expugnatur. E c'è chi, in attesa di «nuovi messia», invoca — lato comico della tragedia, direbbe Schopenhauer — l'entrata in campo di quei due o tre Tigellini che, quando il Nerone di turno bruciava Roma, non stavano né sulla Luna né al pub. E ci si balocca con l'idea da «disertori» di «una rete di credenti radicata tra la gente» — i cattolici, insomma, dovrebbero restare nel «prepolitico», lasciando agli altri di fare politica. Ovvero vengono prefigurate «condensazioni» di cattolici nei vari partiti attuali — idea da «servi» accarezzata da non pochi aspiranti mercenari. E il dramma è che, tra l'irresponsabile rifiuto di un impegno diretto e l'ansia di fare i camerieri, non ci si rende conto che non c'è più tempo da perdere. Resta solo la grande speranza che esperti capitani di ben addestrati reggimenti, come Raffaele Bonanni, Sergio Marini, Giorgio Guerrini, Carlo Costalli, Luigi Marino e Carlo Sangalli, ed altri ancora, si affrettino a eleggere il loro generale e che, insieme a lui, riescano finalmente a dare vera ed efficace rappresentanza a un mondo cattolico privo da anni di riferimento politico.
Sono 14.246 i servizi promossi dai cattolici nelle Regioni italiane e operanti nell'ambito sanitario e socio-assistenziale; 740.636 è il numero degli alunni che frequentano le scuole paritarie cattoliche; nel 2009 le 449 mense della Caritas hanno erogato circa sei milioni di pasti con una media di 16.514 pasti al giorno — media che si è sensibilmente innalzata negli anni successivi; 685 sono i servizi che operano in favore degli immigrati; 95 sono le fondazioni anti-usura; 371 i consultori familiari. E poi: i gruppi impegnati nell'assistenza domiciliare, gli oratori per la gioventù, la formazione professionale, le 354 case-famiglia, le organizzazioni per la tutela sindacale e il lavoro minorile, il volontariato negli ospedali e nelle carceri, le 251 comunità per il reinserimento in società dei tossicodipendenti e i 366 centri per disabili, sacerdoti e suore che si prodigano contro i nuovi schiavisti della prostituzione, ed altri sacerdoti, come, per esempio don Luigi Ciotti e don Giacomo Panizza, coraggiosamente schierati contro la criminalità organizzata... Ecco, tutto questo, e non solo questo, costituisce una realtà imponente creata e sostenuta dalla generosità di laici e religiosi cattolici. Né va dimenticato il contributo in campo scolastico dell'editoria cattolica (basti qui menzionare La Scuola di Brescia e la S.E.I. di Torino) e, nell'ambito della ricerca e della formazione, dell'Università cattolica di Milano, così come in quello della informazione preziosissima resta la presenza di 189 periodici settimanali cattolici e delle 250 radio e televisioni cattoliche. Stando così le cose, come è possibile affermare ancora che in Italia i cattolici sono irrilevanti? In Italia non sono irrilevanti i cattolici, sono e restano irrilevanti i cattolici dispersi e accampati — chissà, forse felicemente — nelle più svariate formazioni politiche. E, allora, il programma di ricostruzione elaborato, in vista di Todi 2, nel Manifesto del Forum delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro — un gigantesco programma di ricostruzione, può venir davvero e ragionevolmente lasciato nelle improvvide mani di un Parlamento di nominati, alla mercé delle sgangherate coalizioni degli attuali partiti o di quelle formazioni che si stanno affacciando all'orizzonte?
Non sono mancati con Giovanni Paolo II e non mancano con Benedetto XVI appelli a che i cattolici si impegnino a dare il loro contributo ad una buona politica. Certo, non è compito delle autorità ecclesiastiche dire come, per quali vie e con quali mezzi, questa buona politica vada realizzata. Tuttavia, seguitare ad insistere da più parti dell'intellighenzia cattolica che un partito non di tutti i cattolici, ma di cattolici «liberali e solidali», nella prospettiva di don Sturzo e di De Gasperi, non debba nascere è una resa ai «fatti peggiori», un tradimento di attese e di speranze, un irresponsabile non expedit proveniente da più parti ma pronunciato sempre da personaggi (sia detto con il rispetto di chi lo merita) per i quali l'attuale situazione dovrebbe cambiare proprio di poco o addirittura non mutare affatto. Si sta troppo bene in greppie ben munite.

Corriere 20.8.12
Sesso e politica, bufera su Crocetta «Voto di castità se eletto governatore»
«Vendola non mi appoggia. Ma non per invidie tra gay»
di Alfio Sciacca

MILANO — «Basta parlare di sesso». Con un tweet a fine giornata Rosario Crocetta prova a spegnere le polemiche e qualche preoccupazione che già serpeggia tra gli alleati che lo sostengono nella corsa per la presidenza della Regione Siciliana. Lui, sindaco di tante battaglie antimafia, gay dichiarato, è forse caduto nell'imboscata di indugiare troppo sull'argomento e di prendere una sorta di impegno di «castità postelettorale». «Se dovessi diventare governatore — ha annunciato parlando alla trasmissione KlausCondicio — dirò addio al sesso e mi considererò sposato con la Sicilia, le siciliane e i siciliani. Guidare la cosa pubblica è come entrare in un convento e non ho neanche più l'età per certe scorribande».
Quasi un punto programmatico con tanto di argomentazioni sui guai che procura il sesso e su come abbia rovinato la vita di tanti politici. E qui il riferimento all'ex premier. «Certamente non farò la fine di Berlusconi — afferma il candidato di Pd e Udc — che si è consumato sia per la sua incapacità politica che per le donne, pur avendo più anni di me». La morale del ragionamento è per certi versi ancor più impegnativa. «La sessualità sia etero che omo portata agli estremi, crea effetti di sovraesposizione — afferma l'eurodeputato del Pd —. Quando si hanno ruoli pubblici si deve essere molto prudenti e molto casti».
Tema e argomentazioni troppo scivolosi, che in serata lo hanno indotto a tentare di rimediare con un tweet. «Non ne posso più di questa storia del sesso — cinguetta —. Perché non ci chiedono dei programmi e delle cose che vogliamo fare per la Sicilia? La mia battuta vuol mettere fine a un'interminabile violazione della mia vita privata arrivata ai limiti del voyeurismo». Ma le reazioni non si sono fatte attendere assieme a qualche imbarazzato silenzio. Storace definisce Crocetta «uno scemo», un «comico che non fa ridere» mentre l'ex ministro La Russa si dice disinteressato alla sua vita sessuale: «Non mi interessano i propositi futuri, anche perché di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno». Nell'intervista a Klaus Davi il candidato del centrosinistra ha detto altro ancora. Che sogna di avere in giunta il pm Ingroia «ma so che non è disponibile» e che avrebbe già reclutato altri personaggi in prima linea nella lotta alla mafia: «Un importantissimo questore siciliano che ha arrestato tanti mafiosi». Infine tocca il tasto dolente dei rapporti a sinistra. Crocetta viene proprio da quell'area ma in Sicilia Sel non lo appoggia e anzi esprime un proprio candidato, Claudio Fava, che lo ha anche accusato di rappresentare la continuità con l'esperienza del governo Lombardo. «Il mancato appoggio di Vendola — spiega appunto Crocetta — non c'entra con l'invidia che può esistere anche nel mondo gay, non si tratta di gelosia o di "primadonnismi". Ha invece fondamenti politici. Qualcuno non mi ha perdonato di avere optato per il progetto politico del Pd». E dunque parlando a Vendola in realtà replica a Fava: «Quando il candidato di Sel arriva a dire che sono il prolungamento di Cuffaro e Lombardo siamo all'assurdo. Non è la tessera di partito che fa il valore di un uomo, ma le sue scelte». Se Vendola preferisce tacere a replicare è proprio Fava. «Crocetta mi pare ormai un po' sopra le righe nelle battute e nei comportamenti — attacca —, qualche giorno fa, per esempio, si è fatto fotografare con un uomo di Lombardo arrestato per concussione e poi è andato tranquillamente a cena con gli imprenditori Mollica condannati per bancarotta fraudolenta. Come dire: predica codici etici ma pratica gli inquisiti».

l’Unità 22.8.12
Nell’eredità di Togliatti c’è qualcosa di utile al Pd
di Michele Prospero
qui

l’Unità 25.8.12
Togliatti non appartiene all’eredità del Pd
di Arturo Parisi
qui

l’Unità 26.8.12
Perché Togliatti e De Gasperi sono un’eredità per il Pd
di Gianni Cuperlo
qui

La Stampa 22.8.12
Lo scontro senza quartiere che dilania la sinistra
Sulle intercettazioni del Quirinale, contrapposti politici, magistrati e intellettuali
di Federico Geremicca

ROMA Il Palazzo del Quirinale. Il presidente Napolitano è al centro di uno scontro istituzionale con la Procura di Palermo
L’ intensità autolesionistica ricorda quella che, nella primavera del 2008, portò alle dimissioni di Romano Prodi, lesionando seriamente la credibilità di quell’alleanza di governo. Oggi (e per il momento) non ci sono esecutivi che rischiano la crisi: ma non per questo la vicenda è meno clamorosa.
E la vicenda, naturalmente, è quella che vede contrapposti - a partire dallo scontro in atto tra la Procura di Palermo e il Quirinale - pezzi di sinistra, di magistratura, di intellettualità e perfino di carta stampata. Stare con Napolitano o con i pm che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia? Firmare l’appello de «Il Fatto quotidiano» a sostegno dei magistrati siciliani o schierarsi con il Quirinale, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire il destino di certe discusse intercettazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino)?
Lo scontro è senza quartiere. E ieri, mentre il centrodestra stava ancora fregandosi le mani, ecco l’ultimo capitolo: in campo, infatti, è sceso anche Valerio Onida - ex presidente della Corte Costituzionale e membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia» - per contestare le tesi sostenute qualche giorno prima da Gustavo Zagrebelsky, suo predecessore alla guida della Corte e presidente onorario di «Libertà e Giustizia». Onida si è schierato decisamente con il Quirinale
(a differenza di Zagrebelsky). Di più: è arrivato a sostenere l’illegittimità dell’indagine dei giudici di Palermo: «Mi sembra - ha spiegato a “l’Unità” - che sia di competenza del Tribunale dei ministri, non della Procura. E non lo dico io, lo dice la Costituzione».
E’ l’ultima clamorosa spaccatura: «Ma noi non siamo un partito: ci si confronta liberamente, e che la si pensi in maniera diversa non mi pare onestamente un caso», dice Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia». Nemmeno «la Repubblica» è un partito - nonostante lo si definisca da sempre giornale-partito (e conti di certo assai più di un partito) ma anche lì sono volati gli stracci, con Eugenio Scalfari accorso in difesa di Napolitano pesantemente criticato, due giorni prima e proprio su «la Repubblica», da Gustavo Zagrebelsky. Nemmeno il partito dei giudici è un partito: eppure anche tra le toghe divampa uno scontro furioso che contrappone correnti interne, personalità e magistrati di primissimo piano.
E’ un intero mondo - fino a ieri legato da un comune sentire - a liquefarsi nell’afa di un agosto terribile. Sconcerta che il campo di battaglia sia la giustizia, e sorprendono le accuse che rimbalzano tra i due fronti: presunti «giustizialisti» contro ipotetici «affossatori della verità». E cosa ci sia dietro - cosa potrebbe esserci dietro - alla fine lo ha denunciato senza mezzi termini Luciano Violante (pure considerato tra i padri fondatori del partito dei giudici: paradosso dei paradossi). «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo... C’è un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano... Il “populismo giuridico” utilizza le Procure come clava politica».
Vera o traballante che sia la tesi dell’ex presidente della Camera (ed ex magistrato), il livello del punto cui è precipitato lo scontro lo si coglie bene nella replica che arriva dall’Italia dei valori: «Violante continua a farneticare di un progetto comune tra magistratura, politica e informazione per abbattere Napolitano e Monti. In realtà, lui è un uomo al servizio dei poteri forti e solleva polveroni... Con le sue dichiarazioni dimostra un’imbarazzante sintonia con Cicchitto... sono fatti l’uno per l’altro».
Chi fosse stato lontano dall’Italia nelle ultime settimane, non potrebbe che rimanere strabiliato di fronte a tutto questo. Quando aveva lasciato il Paese, «giustizialista» era l’accusa tradizionale che la destra rivolgeva al centrosinistra: e non la spada impugnata da un pezzo di sinistra contro un altro pezzo fino a ieri alleato; Di Pietro e Bersani apparivano ancora sorridenti nella foto di Vasto; «Libertà e Giustizia» non si divideva, il partito di «Repubblica» non si spaccava e, soprattutto, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di contestare al Capo dello Stato l’intenzione di occultare la verità sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
E’ vero, la politica italiana (ed i rapporti tra la politica e la magistratura...) regala di sovente sorprese: ma ad un terremoto di tali dimensioni e su un simile terreno - forse nessuno era preparato. L’origine, naturalmente, sarebbe tutta politica: e cioè la nuova collocazione di Antonio Di Pietro fuori dal centrosinistra, in aperta concorrenza col Pd e in gara con Beppe Grillo e la Lega per la conquista di consensi «radicali» e di voti da recuperare nell’enorme bacino dell’astensione e dell’antipolitica. Da qui, secondo molti, la decisione di tracciare una riga: immaginaria, certo, ma invalicabile e insidiosa. O di qua o di là: di qua dovrebbe voler dire stare con i magistrati di Palermo, di là con Napolitano, Monti e i partiti che lo sostengono.
Sullo sfondo - sia detto senza retorica - si stagliano i problemi del Paese: quasi sfocati rispetto alla questione in primo piano, che è di nuovo - e come sempre da vent’anni a questa parte - la giustizia. La novità è che, fino a ieri, oggetto degli strali «giustizialisti» era Silvio Berlusconi, non Napolitano... Così, il Cavaliere tira un sospiro di sollievo e ringrazia: e si gode, soprattutto, quella che i suoi definiscono una «rivincita postuma». In fondo, il suo cavallo di battaglia è sempre stato lo stesso: in Italia la giustizia non funziona. Sentirlo dire oggi alla sinistra, è musica fantastica per le sue orecchie...

Repubblica 24.8.12
“Monti ha fatto un gran lavoro ma è una parentesi non ripetibile il Pd è pronto a governare”
Bersani al premier: cambi passo o l’Italia non si salva
Intervista di Massimo Giannini

«SENTO in giro molte preoccupazioni sul dopo Monti. Allora chiariamo subito un punto: qualunque ragionamento sul prossimo futuro deve partire dal presupposto che non vengano abolite le elezioni, magari su suggerimento di Moody’s. Se in Italia passasse l’idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, noi ci porremmo automaticamente al margine delle democrazie del mondo». Finite le brevi ferie d’agosto, Pierluigi Bersani torna in campo e detta a Monti le condizioni dell’autunno. Il leader del Pd considera quella del governo tecnico una «parentesi non ripetibile». «Perché vede - spiega - il limite della soluzione tecnica non sta nel governo Monti, che pure ha fatto un gran lavoro, ma nella mancanza di univocità di una maggioranza che ha opinioni diverse, perché in natura esistono una destra e una sinistra alternative l’una all’altra. E se a Bruxelles o sui mercati si ha paura per la tenuta del rigore in Italia, io voglio credere che ci si riferisca a un rischio Berlusconi o a un pericolo populista, non al
centrosinistra».
Eppure, segretario, l’impressione è che cancellerie e Borse non si fidino neanche di voi...
«Noi abbiamo fatto la moneta unica, con Prodi, D’Alema e Amato abbiamo raggiunto accordi storici con la Ue e la Nato, io ho lavorato con Ciampi e Padoa- Schioppa. I mercati e le cancellerie non possono far finta di non conoscerci. Se ci sono manovre interessate per dire che nell’Italia del dopo Monti non c’è un presidio credibile, noi siamo qui, con la nostra storia, a dimostrare che non è vero».
Quindi lei fin da ora dice no a un Monti bis e dice no a una Grande Coalizione?
«Io dico che in un Paese maturo si fronteggiano un centrodestra, un centrosinistra ed eventualmente una posizione centrale che da una legislatura all’altra può dare flessibilità al sistema.
Chi vince, governa. Questo è il vero tema, non quanti tecnici ci sono nel governo. E questo significa che non si può andare al voto proponendo una Grande Coalizione. Non esiste proprio».
Perciò, Bersani va al voto con il suo programma e le sue alleanze, e se vince va a Palazzo Chigi. Giusto?
«Così funziona, nelle democrazie normali. E poi, hai visto mai, può succedere che una figura come Monti non riesce a portare a casa una legge contro la corruzione, e invece Bersani ci riesce».
Il Pd è sempre più insofferente col governo. Oggi c’è il primo Consiglio dei ministri dopo le ferie. Cosa chiede a Monti?
«A Monti chiedo un cambio di passo. Non sono d’accordo su come stanno andando le cose. È ora di riscrivere l’agenda. Per noi progressisti è il momento di rompere l’avvitamento tra austerità e recessione. Il rigore non va abbandonato. Ma è ora di aprire gli occhi. Lo dico anche al Consiglio dei ministri che si riunisce oggi: date finalmente uno sguardo alla realtà».
Perché finora il premier e i ministri non l’hanno fatto?
«Non sto dicendo questo. Dico che ora ci sono due problemi da affrontare. Il primo è europeo: a settembre il messaggio dell’Ue sulla stabilizzazione degli spread non deve più essere un oggetto da Sibilla Cumana, ma deve diventare operativo. A proposito di battere i pugni sul tavolo, questa è l’occasione. Il secondo è italiano. Sento parlare di via d’uscita dalla crisi. Io credo nella possibilità di uno spiraglio, ma ancora non lo vedo. E ho l’impressione che il governo finora non abbia percepito lo scivolamento dell’economia reale. C’è un crollo della produzione industriale, un segno meno nei consumi, lavorano 22 milioni di italiani su 60. Io chiedo: come affrontiamo queste emergenze?».
E cosa si aspetta che le risponda, Monti?
«Per me il rigore è la condizione necessaria, ma non è l’obiettivo. Il vero obiettivo, qui ed ora, è il sostegno all’economia reale. Leggo di piani energetici, di piani per gli aeroporti. Per carità, va tutto benissimo. Ma i problemi di famiglie e imprese, in questo momento, sono altri. Per esempio: il prezzo della benzina si può ridurre? I pagamenti della Pubblica Amministrazione sono stati sbloccati? E che facciamo di fronte alle crisi industriali, dalla Fiat a Finmeccanica all’Alcoa? Le eventuali operazioni di alienazione del patrimonio pubblico possono essere destinate a politiche industriali e allo stimolo all’economia reale? In agenda io vorrei queste priorità. Attenzione a messaggi troppo astratti, che non generano fiducia ma semmai scollamento».
Da mesi si critica il governo perché non fa niente sulla crescita, ora lei lo critica perché prova a fare qualcosa?
«Io non lo critico, ma dico che non bisogna passare dal niente al troppo. Sento parlare di una defiscalizzazione del-l’Iva sulle infrastrutture, praticamente senza copertura. Bene, ma perché da mesi si dice no alla sterilizzazione dell’Iva sulle accise per la benzina? Ci sono cose che il governo può fare subito. Rafforzi gli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni immobiliari in funzione antisismica e ambientale. Adotti misure di sburocratizzazione, eliminando pas-
saggi burocratici o esternalizzandoli. Finanzi l’innovazione coi crediti d’imposta sulla ricerca e la defiscalizzazione degli investimenti. Introduca una vera Dual Income Tax».
Il nodo vero è la pressione fiscale. Lei pensa che Monti dovrebbe cominciare a rimodulare le aliquote Irpef?
«Senta, io non riesco a raccontare favole. È un obiettivo per il futuro, ma per ora non possiamo permettercelo. Dobbiamo scongiurare gli aumenti dell’Iva, questo sì. Ed è possibile farlo, aumentando il recupero dell’evasione fiscale, concludendo l’accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali, lavorando realisticamente sugli incentivi alle imprese, e poi definendo meglio con gli enti locali la griglia della spending review».
Elsa Fornero ha detto che porterà il taglio del cuneo fiscale in Consiglio dei ministri. Lei è d’accordo?
«Certo, in prospettiva il cuneo fiscale va ridotto. Ma anche qui, non ci sono soluzioni miracolistiche. E poi serve uno schema pattizio: Prodi tagliò il cuneo fiscale di 5 punti, ma purtroppo questo non servì a rilanciare gli investimenti».
E la patrimoniale? La deve fare Monti, o la farete voi quando tornerete al governo?
«Noi proponemmo un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari per alleggerire l’Imu. Non si fece allora, per me va fatta adesso. Quanto alla finanza, la ricchezza scappa e la povertà resta. Va rafforzata la tracciabilità dei capitali, anche su scala europea. Questo Monti può farlo, entro la fine della legislatura».
Lei parla di fine della legislatura. Ma tornano in ballo le elezioni anticipate a novembre.
«Le elezioni anticipate sono un’elucubrazione dannosa. Io non le auspico e non le vedo all’orizzonte, anche se è nostro dovere tenerci pronti a qualunque evenienza. Poi, lo dico una volta per tutte, non c’è alcun nesso tra voto anticipato e legge elettorale...».
Ma l’intesa col Pdl sulle modifiche al Porcellum c’è o no?
«Oggi un accordo non c’è ancora, ma da parte nostra c’è la disponibilità a chiudere in fretta. Naturalmente, non rinunciamo ai nostri due paletti. Primo: la sera in cui si chiudono le urne il mondo deve sapere chi governa, altrimenti ci travolge uno tsunami. Secondo: i cittadini devono scegliere chi mandare in Parlamento. In concreto, questo significa due cose. Ci vuole un premio di maggioranza ragionevole, e il 15% lo è, perché sarebbe curioso che il Pdl che nel 2005 ha introdotto una premialità sconosciuta in Occidente oggi dicesse no a una premialità decorosa. E poi ci vuole una quota significativa di collegi uninominali, per ricreare un legame tra elettori ed eletti».
Mi dica la verità, c’è imbarazzo nel Pd sul conflitto sollevato dal presidente Napolitano contro i pm di Palermo per le intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia?
«Nessun imbarazzo. Napolitano ha fatto quel che doveva. Dopodichè, in un sistema costituzionale e democratico lo schema non è chi è d’accordo e chi no con il Capo dello Stato, ma chi lo rispetta e chi no. E allora, se il presidente ha chiesto alla Consulta di chiarire un punto cruciale che riguarda le sue prerogative, può anche essere criticato ma deve essere rispettato. E questo non sta avvenendo sempre. C’è una campagna contro Napolitano: esiste un filone populista, in certe aree della politica e del giornalismo, che forse ha anche un disegno in testa. Ma non passerà».
Ma lei e il Pd siete d’accordo con Monti e la Severino, che annunciano una nuova legge sulle intercettazioni?
«Per me in una democrazia liberale il diritto alla riservatezza di chi è al di fuori da un’indagine penale non è un optional. Ma attenzione: questo diritto si garantisce con un filtro rigoroso affidato alla magistratura, senza limiti alle indagini e bavagli all’informazione. Dunque, se il governo vuole presentare un ddl con queste caratteristiche, noi siamo pronti a discuterne. Ma la condizione è che ci sia un pacchetto complessivo di riforma della giustizia, con al primo posto le nuove norme contro la corruzione. E dopo, semmai, anche le intercettazioni».
Le primarie tornano a infuocare la vostra metà campo. Le farete, come e quando?
«Il percorso è chiaro. In autunno vareremo una carta di intenti, con regole d’ingaggio, criteri di partecipazione, impegni e responsabilità comuni. E tra novembre e dicembre faremo le primarie di coalizione, con la massima apertura alle forze politiche e alla società civile.
Del rottamatore Matteo Renzi che mi dice?
«In questi mesi non ho mai alimentato polemiche, e continuerò a farlo. Siamo dentro la più grave crisi del dopoguerra. Ne usciamo solo se c’è condivisione tra noi».
Sulle alleanze il quadro è problematico, tra Vendola e Casini. Riuscirete a vincere e a governare, mettendo insieme i centristi e i comunisti?
«Noi organizziamo un centrosinistra aperto a un incontro con forze politiche e sociali moderate. Entro ottobre saranno pronti 10-15 punti di programma, non 281 pagine. Sarà poi il candidato premier a fare il resto...».
Lei, presumibilmente...
«Se mi voteranno, sarò io. Sulla base di quel programma, il centrosinistra proporrà un’alleanza di legislatura alle forze liberali e moderate del Paese. Dentro questo perimetro non ci sono solo Vendola e Casini, ma ad esempio anche i socialisti».
Con Di Pietro è finita per sempre?
«Mi pare evidente che lui vuole star fuori. Il centrosinistra deve fare spesso i conti con le forze agite da questo istinto minoritario di auto-esclusione dalle responsabilità. Io, da riformista, lavoro perché questa maledizione finisca. Il Pd è pronto per governare, e sono convinto che governerà».

Corriere 26.8.12
Il candidato Crocetta perfetto per un reality show
di Aldo Grasso

La politica come un reality. Riuscirà Rosario Crocetta, detto Rosariuccio, ex sindaco di Gela, candidato alla presidenza della Regione Sicilia per conto di Pd, Udc, Api e Psi, a unire la terra al cielo? Verrà nominato? La terra e il cielo sono distanti, ma Rosariuccio non si scoraggia: vuole rinnovare la politica ma anche la società civile, battere la mafia insieme con il parassitismo dei partiti, esprimersi con progetti concreti senza disdegnare i paradossi.
In una ormai famosa intervista al Corriere ha sparato a zero contro «le cripto-checche mascherate in qualche frangia integralista»: «La verità è che c'è un esercito di checche non dichiarate e nascoste che mi odia perché un gay dichiarato come me si candida alla presidenza della Regione». Di più: secondo Pietrangelo Buttafuoco, Crocetta avrebbe fatto dell'omosessualità una «mostruosa» categoria politica, a dispetto di Nichi Vendola.
Don Rosario viene dipinto come teatrale, estroso, intelligente, il frutto di una montatura simpatica e vincente (il ritratto perfetto del concorrente di un reality), il crocevia di tutte le antimafie e gli astratti furori, forse un bluff dietro cui si nasconderebbe Raffaele Lombardo, il governatore uscente. Ma perché bluff? Perché a curare la sua immagine c'è Sergio Mariotti, in arte Klaus Davi, quello che mandò Piero Fassino da Maria De Filippi (e poi uno si chiede perché i torinesi non amano il nuovo sindaco). A «Klaus Condicio» Crocetta ha dichiarato: «Se dovessi diventare presidente della Regione dirò addio al sesso e mi considererò sposato con la Sicilia, le siciliane e i siciliani. Guidare la cosa pubblica è come entrare in un convento e non ho neanche più l'età per certe scorribande».
Come Sergio Mariotti, in arte Klaus Davi, che è personaggio tv, massmediologo e, soprattutto, consulente d'immagine, anche Rosariuccio è uno e trino, in astinenza per conto della missione. Ha tante identità quante gliene attribuiscono: cattolico, comunista, arruffapopoli, inquieto, cripto-irredentista, istrione, ecc. ecc. «Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso», diceva Pirandello. E non aveva ancora conosciuto Crocetta.

La Stampa 26.8.12
L’elogio di Togliatti aumenta la distanza tra Pd e prodiani
Parisi vicino all’addio, Prodi assente alla festa del partito
di Fabio Martini

L’EX MINISTRO DELLA DIFESA «Dopo il silenzio imbarazzato l’Unità lo rivaluta: non è questo il partito che immaginavo»

ROMA Distanze Aumentano le distanze tra i prodiani e i democratici all’interno del Pd Ma il segretario Pd durante la festa del partito a Reggio Emilia ha concentrato il suo intervento contro Grillo e Di Pietro Quest’ultimo reo di non aver mantenuto i patti e quindi di fatto fuori dall’alleanza di centrosinistra
Sembrava un lungo addio destinato a proseguire senza strappi traumatici. E invece la progressiva emarginazione dal Pd della cultura e della politica prodiano-ulivista potrebbe presto produrre un primo trauma. Lo fa capire Arturo Parisi, l’ideologo del bipolarismo italiano e del progettoPd, che in risposta ad un elogio di Palmiro Togliatti pubblicato dall’”Unità”, spiega che si sono oramai esaurite le ragioni di una sua permanenza nella casa democratica: «Non è questo il Pd che avevamo pensato». Non c’è l’annuncio di uno strappo, che però potrebbe concretizzarsi nelle prossime settimane. E d’altra parte anche Romano Prodi, da tempo, non sempre si ritrova nelle scelte di un partito che lui stesso ha fortemente voluto, una distanza in qualche modo confermata dalla assenza del Professore dalla Festa nazionale del Pd che ieri è iniziata a Reggio Emilia. Certo, Prodi già da qualche anno diserta la kermesse democratica, ma questa volta la Festa si tiene a due passi dalla sua Scandiano.
Nelle settimane scorse erano stati fatti sondaggi per chiedere a Prodi se fosse interessato a partecipare ad un dibattito, ma anche stavolta è stata negativa la risposta del Professore. Certo, tra il Professore e Bersani c’è sempre stato un rapporto di sintonia emiliana, segnatoanche da affetto, come dimostra la presenza a palazzo Chigi il 10 maggio 2008, nel giorno amaro della staffetta con Berlusconi, di un solo ministro Ds: Pier Luigi Bersani. Da parte di Prodi sono da escludere gesti traumatici, non è affatto escluso che possa farsi una passeggiata alla Festa, ma oramai sembra essere calato un grande freddo tra il Pd e i due personaggi che più si sono battuti per l’affermazione anche in Italia di una cultura bipolare in grado di accorciare la distanza tra elettori ed eletti. L’ultima scintilla è stata la pubblicazione, il 22 agosto, da parte dell’Unità di un commento di un editoriale di Michele Prospero, nel quale si esprime un elogio senza riserve del Migliore. L’editorialista, dopo aver parlato del «realismo alla Cavour» di Togliatti, indica «l’officina» del Migliore come «una miniera» per il Pd. Da sempre figura controversa, finora mai nessuno aveva immaginato di indicare Togliatti come uno dei padri nobili del Pd. Segretario del Pci, nella Mosca staliniana spettatore muto dello sterminio di tanti comunisti anche italiani, pure nella stagione democratica che lo vide protagonista di svolte storiche (Salerno, articolo 7 della Costituzione, amnistia), il Migliore fu attore di pagine tragiche (la sollecitazione dell’intervento sovietico in Ungheria, l’accordo sulla fucilazione di Nagy), al punto che, nel 1989, l’Unità prese le distanze con articoli molto critici di diversi intellettuali comunisti. L’inattesa “riabilitazione” - che non ha suscitato reazioni nella nomenclatura ex dc - ha indotto Parisi ad una lettera che il direttore dell’Unità ha pubblicato in prima pagina. L’ex ministro della Difesa ricorda di aver chiesto, due anni fa, come mai una delegazione del Pd al Verano avesse celebrato l’anniversario della morte di Togliatti e lo stesso trattamento non fosse mai stato riservato a «Gramsci, Salvemini, Lussu, Rosselli, Sturzo». Scrive Parisi: «Allora mi dispiacquero le reazioni di molti compagni di base ma quello che non riuscii ad accettare fu il silenzio imbarazzato di Bersani», anche se «la risposta mi è arrivata ora con il nitido commento di Prospero», con la sua «orgogliosa posizione assertiva». Una celebrazione «ci dice che il tempo del Pd partito aperto a tutti è finito». Conclusione: «I partiti non si inventano, ha ripetuto in questi anni D’Alema. L’errore, un errore dal quale in molti non riusciamo a guarire, è averlo pensato».


2. HOLMES PAGE E BREIVIK

Corriere 21.7.12
Con due fucili al cinema «Pensavamo fosse il film Lui gridava: sono Joker»
Denver, strage alla prima di Batman: 12 morti e 59 feriti Il killer ha 24 anni. «Era calmissimo mentre uccideva»
di Paolo Valentino

AURORA (Colorado) — Era il film più atteso dell'estate americana. Una metafora gotica e sanguinaria sull'ambiguità della lotta contro il male, le buone intenzioni che provocano disastri. Ma in un drammatico cortocircuito tra cinema e realtà, l'esordio sugli schermi degli Stati Uniti di The Dark Knight Rises, terzo e ultimo episodio della saga di Batman, è stato sfregiato da un massacro che lascia sconvolto quest'angolo del Colorado e atterrisce l'intero Paese.
Dodici morti e 59 feriti, fra i quali diversi bambini e alcuni militari, sono l'orrendo bilancio di sangue della strage consumatasi ad Aurora, un grande sobborgo di Denver, giovedì notte, quando un giovane mascherato ha fatto irruzione nella sala dov'era da poco iniziata la proiezione dell'opera di Christopher Nolan, prima facendo esplodere dei gas e poi sparando sulla platea. Si era tinto i capelli di rosso e, secondo quanto riferito dal commissario della polizia di New York Raymond Kelly, durante l'attacco ha detto di essere Joker, uno dei principali nemici di Batman.
Il killer si chiama James Holmes, ha 24 anni ed è stato arrestato subito dopo la sparatoria fuori dal cinema: aveva due pistole Glock, un fucile a pompa e uno semiautomatico. È successo poco dopo la mezzanotte al Multiplex Century, un grande centro cinematografico multisala. L'attenzione del pubblico era tutta concentrata sugli spari e le esplosioni che avvenivano in quel momento nel film. Secondo le testimonianze di alcuni dei presenti, l'uomo, che aveva il viso coperto da una maschera antigas, indossava un giubbotto antiproiettile e vestiva interamente di nero, è penetrato nella sala 9 da una porta d'uscita ed è andato a piazzarsi davanti alla prima fila, sulla destra dello schermo. Ha quindi gettato per terra due bombolette, probabilmente gas lacrimogeno. Il fumo che si è sprigionato ha dato a molti l'impressione che la scena fosse parte dello show, una sorta di effetto speciale off-screen d'intrattenimento.
Ma Holmes faceva maledettamente sul serio. Ha prima sparato in aria, poi ha puntato la pistola sulla folla e ha cominciato a far fuoco. «È stato pauroso. Ho pensato che non avessimo più scampo, che non sarei mai riuscito a uscire vivo», ha detto, in un video diffuso su YouTube, Trey Freemann. Ed ha aggiunto che il giovane «sembrava molto calmo, mentre gettava le due bombolette». «È stato tutto molto confuso — ci ha raccontato Quentin Caldwell — c'era un inseguimento sullo schermo, stavano sparando. Quando ho sentito dei pop, pop, pop metallici, molto distinti, sulla mia destra. Mia moglie è saltata sulla poltrona, pensava a effetti speciali. Quando abbiamo capito e visto quella silhouette emergere dal fumo, ci siamo precipitati verso l'uscita».
Sono stati minuti di terrore e grande caos. Mentre Holmes scaricava le sue armi e si dirigeva proprio verso le uscite d'emergenza, molti cercavano di scappare. Diverse persone sono cadute e sono state travolte nella fuga. In tanti sono rimasti in sala, ancora senza capire cosa stesse succedendo. Fuori dal Multiplex Century, è stato l'inferno. I feriti giacevano dappertutto, tra urla e sangue. Tutti provavano a chiedere aiuto, usando i cellulari. I video presi in diretta mostrano un uomo con la schiena insanguinata uscire come uno zombie dalla sala; un poliziotto correre con in braccio una bambina svenuta e sanguinante; decine di persone vagare in chiaro stato confusionale con ferite alla testa, alle mani, alle braccia; agenti e pompieri che arrivano sul posto. Molti feriti sono stati portati via verso gli ospedali, ancora prima che arrivassero le ambulanze, a bordo delle auto della polizia.
Holmes ha molto probabilmente agito da solo. Gli investigatori al momento hanno escluso una matrice terroristica, ma pensano che il giovane abbia pianificato da tempo e con cura la strage. Agli agenti che l'hanno arrestato, senza che opponesse alcuna resistenza, vicino alla sua auto parcheggiata nel piazzale dietro il cinema, ha detto che aveva degli esplosivi nel suo appartamento. L'Fbi e le autorità locali hanno subito evacuato la zona e mandato sul posto un squadra di artificieri. Le trappole esplosive trovate nella casa di Holmes sono «qualcosa che non ho mai visto prima» ha detto il capo della polizia di Aurora, Dan Oates. Ora il killer è custodito dagli agenti: non sta collaborando con le autorità e ha chiesto un avvocato. Dovrebbe comparire in tribunale lunedì prossimo.
L'orrore e l'emozione suscitati dalla strage in tutti gli Stati Uniti sono impressi nelle parole e nella reazione del presidente Obama, il quale, interpretando il sentimento della nazione ha deciso di interrompere la campagna elettorale — e come lui anche Mitt Romney — per chiedere agli americani di dedicare la giornata «alla preghiera e alla riflessione».
Il capo della Casa Bianca, che aveva trascorso la notte in Florida impegnato in un giro elettorale, è stato informato della strage poco dopo le 5 del mattino dal consigliere per l'antiterrorismo, John Brennan. In un comunicato reso noto poche ore dopo, il presidente e la first lady Michelle si sono detti «choccati e addolorati dall'orrenda e tragica sparatoria», promettendo che sarà fatta giustizia. «In questi momenti bui — così Obama — dobbiamo stare uniti come una sola famiglia americana, pensare e pregare per la gente di Aurora che si confronta con la perdita di parenti, amici e vicini, essere loro vicini nelle difficili ore e nei giorni che verranno».
Il massacro di Holmes è il più mortifero da quello del 20 aprile 1999 alla Columbine High School, quando due ragazzi diciassettenni aprirono il fuoco sui loro compagni uccidendo 12 studenti, 1 professore e ferendo altre 24 persone, prima di rivolgere le armi contro se stessi e suicidarsi. Per una tragica coincidenza, anche la Columbine si trova in Colorado, a Littleton, un altro sobborgo di Denver, circa trenta chilometri da Aurora, dove l'altra sera una cupa saga cinematografica si è specchiata come in un incubo nella realtà. E la morte si è fatta vera.

Corriere 21.7.12
James, lo studente timido e isolato L'attacco ispirato da un fumetto
Nell'annuncio per la casa si definiva «tranquillo, senza pretese»
di Guido Olimpio

WASHINGTON — James Holmes non voleva soltanto uccidere. Voleva anche sembrare un «cattivo». E si è bardato come dovesse andare in guerra. Testimonianze inverificabili sostengono che abbia detto «Sono Joker», il nemico di Batman. E si sarebbe tinto i capelli per somigliargli. Ma non aveva bisogno di travestimenti. Le armi hanno parlato per il «ragazzo tranquillo». Definizione puntuale quanto falsa che accompagna ogni sparatore di massa. Erano dei «bravi ragazzi» anche quelli che hanno preceduto il killer. Cecchini spietati che hanno fatto il tiro segno contro persone che neppure conoscevano o i vicini di banco.
I primi frammenti della vita di James, 24 anni, non dicono molto. È cresciuto nel sud della California, in un sobborgo di San Diego. La sua è una famiglia «adorabile». Il padre ingegnere ed esperto di computer, la mamma infermiera, una sorella minore. Poi la solita marcia del bravo figliolo, cadenzata dagli impegni scolastici. Il liceo, quindi l'università con una laurea in neuroscienze nel 2010. Anno non buono per trovare lavoro. Infatti James non lo trova e la madre lo spinge a continuare gli studi con una specializzazione. Ma lontano da casa, in Colorado. E quando arriva sotto le Montagne Rocciose, James cerca un appartamento con un annuncio. Scrive: «Sono un tipo tranquillo, senza pretese». E forse senza tanti amici. I vicini — quelli di San Diego e a Aurora — dicono tutti la stessa cosa. Un tipo riservato, bada ai fatti suoi in modo rude, al limite della maleducazione. A volte neppure rispondeva al saluto. Un altro: era timido, però se si lasciava andare era «molto simpatico». Anche i professori non si discostano da questo profilo. Non attirava l'attenzione — rammentano — non faceva gruppo con gli altri, «un isolato». In molti hanno cercato, invano, un suo profilo Facebook o Twitter. Forse ha usato degli pseudonimi. È un quadro anonimo, senza sussulti. E non c'è nulla che spieghi perché James sia andato fuori di testa. Forse a problemi mentali (non svelati) si sono sommati quelli legati allo studio. Aveva fallito dei test, era indietro. Avrebbe potuto recuperare — i compagni dicono: «era in gamba» —, ma in giugno ha lasciato il corso. Probabilmente quando il suo piano d'attacco è entrato nella fase finale. Fabbrica delle bombe che piazza per proteggere la sua «base», l'appartamento a pochi chilometri dal cinema. Ordigni che devono trasformarsi in trappole. Trenta minuti prima dell'assalto dal suo appartamento esce musica ad alto volume. L'ha attivata un timer. Holmes, ormai lontano, spera che arrivi la polizia a controllare: se entra salta tutto per aria. Scenario che non si avvera perché gli agenti sono ormai in piena emergenza. Insieme agli esplosivi accumula le sue armi. Acquistate, in modo legale, in maggio, giugno e luglio. Poteva farlo. Ha la fedina penale immacolata, non è nelle liste nere dell'Fbi e l'unica segnalazione è qualche multa.
James ha tempo per scegliere, con meticolosità, i suoi attrezzi. Un fucile d'assalto Ar 15 dotato di caricatore a tamburo per avere un alto volume di fuoco. Un fucile a pompa per un tiro potente e devastante. Due pistole Glock. Molte richieste negli Usa e comparse in altre stragi. Poi ordigni fumogeni. Infine il «costume» e l'equipaggiamento. Dall'elmetto alla maschera antigas, dal corpetto antiproiettile alle ginocchiere. Tutto rigorosamente nero. Per incutere terrore. O magari per una sua interpretazione di Bane il cattivo, come ha suggerito qualcuno. O per ripetere una storia apparsa su un fumetto. Magari sono forzature, ma se ha colpito la «prima» di Batman non è stato per caso. La risposta la può dare solo Holmes. Ma per ora resta in silenzio, ha detto frustrato un investigatore. James è tornato di nuovo «un ragazzo tranquillo». L'unica a dire qualcosa è la madre, Arlene: «Avete preso quello giusto».

Corriere 21.7.12
L’America quieta tra natura e sobborghi
di G. O.

WASHINGTON — Denver, Colorado. Un'icona chiusa tra le Montagne Rocciose e le Grandi Pianure. Siamo all'Ovest. Eppure c'è ancora molto da camminare se si vuole arrivare dall'altra parte dell'America. La città, fondata dai minatori nel 1858, è bella. E lo sono i suoi sobborghi. Una regione che però per ben tre volte, negli ultimi anni, è stata deturpata dai killer di massa. La prima strage è diventa «la strage». Quella nel liceo di Columbine, nell'aprile del 1999. Con i due sparatori, Eric Harris e Dylan Klebold (foto sotto), che si sono comportati come l'omicida di Aurora, distante appena 15 miglia. Vivevano un'esistenza in apparenza tranquilla — anche se non era così — e nella quiete delle loro case ben curate hanno studiato a lungo il piano d'attacco. Qualcuno ha persino ipotizzato — esagerando — che il fatto che abitassero in una zona nuova, senza un vero centro d'aggregazione, possa aver avuto un ruolo. Magari esacerbando il senso di rigetto della società. Ma ci sono milioni di posti come questo negli Usa e altre sono le molle che spingono due ragazzi a diventare degli assassini. Qualche anno dopo, nel 2007, è Matthew Murray a sconvolgere un sobborgo di Denver. Figlio di un dottore, benestante, 24 anni, prende di mira un centro pentecostale. Si presenta armato di fucile d'assalto e con una montagna di munizioni. Uccide quattro persone, poi si toglie la vita. Tipo strano, Matthew. Non lo avevano mandato a scuola ma aveva studiato da privatista a casa. Sentiva le voci. E una di queste gli ha detto di uccidere.

Corriere 22.7.12
Il Colorado e la lezione inascoltata di Columbine
di Guido Olimpio

La lobby della armi ha la scusa pronta: «Questo è il momento della preghiera e del dolore. Alle discussioni penseremo domani». O dopodomani. Già, perché sanno bene che quando la strage di Aurora diventerà la sesta notizia dei tg le polemiche perderanno forza. È sempre stato così in un Paese nato sulla punta del fucile e non delle baionette. Proprio il Colorado avrebbe dovuto ragionare più degli altri Stati sulla necessità di porre dei limiti. Se non altro perché è stato teatro di due stragi legate ai killer di massa. Dopo Columbine — come ha ricordato il New York Times — ci sono state delle proposte ma con risultati modesti. E non è una sorpresa. Tutti troppo affezionati al loro «ferro», agli affari che girano attorno al mercato dei fucili. Ai loro occhi non sono «cattivi». Un cartello, visto all'ingresso di un'armeria del Missouri, diceva: «Se le pistole sparano, le matite fanno errori di grammatica». Come dire il problema è chi le impugna. Chi lo ha scritto era forse suggestionato dal posto. Dall'altra parte della strada — giuro — c'è la tomba di Jesse James, il bandito del Sud. I commentatori mettono in guardia quanti pensano che il massacro del cinema possa portare ad una svolta. Forse introdurranno qualche regola. Burocratica. Nulla di più. Che serve a poco. James Holmes non avendo problemi con la legge — però ne aveva di mentali — si è fatto il suo arsenale, compresi i 6 mila proiettili comprati su Internet. Ora si può capire che in certi angoli degli Usa possedere un'arma non è una mania. Ma perché permettere di accumulare così tante munizioni? Holmes si era anche comprato un caricatore a tamburo per il suo mitra. Da 100 colpi, tipo Chicago anni 30. Roba da gangster. E infatti lo adorano i narcos che spadroneggiano al sud del Rio Grande. È poi evidente che avere la fedina penale pulita non può essere l'unico requisito: servirebbero visite mediche serie per giudicare lo stato mentale di chi vuole un fucile d'assalto. E i «confetti di piombo». Non sono pochi quelli che si portano avanti. In certi periodi a cavallo dell'elezione di Obama c'è chi ha fatto incetta temendo che il nuovo presidente avrebbe adottato delle restrizioni, come invocava una parte del suo elettorato. Niente paura (per chi spara). Obama si è guardato bene dal farlo e così il Congresso, dove la lobby delle armi ha un'influenza storica. A destra e a sinistra. Il sindaco di New York Bloomberg, venerdì, ha esortato i due candidati: per chi vuole essere presidente è forse venuto il momento di occuparsi di questo tema. Gli assistenti hanno preso nota. Ieri pregavano.

Corriere 7.8.12
Il killer dei sikh: un razzista bianco con l'11/9 tatuato
La Casa Bianca: esame di coscienza
di Massimo Gaggi

NEW YORK — Per dieci anni, dopo essere stato cacciato dall'esercito per ubriachezza, Wade Michael Page ha fatto il chitarrista e cantato in diverse band di «skinhead» razzisti i cui nomi sembrano già un programma: da «Definite Hate» (odio certo) a «End Apathy» (basta con l'apatia). Conosciuto dall'Fbi come attivista dei «white supremacist» e temuto per la violenza del linguaggio delle sue canzoni, era seguito con attenzione dal Southern Poverty Law Center, un'organizzazione che cerca di sventare crimini razziali. Allarmato anche da una sua intervista del 2010 a «Label 56», il sito che diffonde la musica degli «End Apathy», nella quale si era descritto come uno la cui attività spazia «dalla sociologia alla religione, a come il valore della vita umana è stato degradato dalla gente che si è lasciata soggiogare dalla tirannia e dall'ipocrisia».
Domenica mattina il 40enne veterano originario del Colorado (come l'autore della recente strage di Aurora), ha rotto a suo modo l'ipocrisia che tanto lo infastidiva facendo irruzione armato di una pistola semiautomatica calibro 9, nel tempio sikh di Oak Creek, un sobborgo di Milwaukee, in Wisconsin. Qui il fanatico seguace del «potere bianco» ha assassinato sei cittadini di origine indiana fedeli di questa religione, ferendone gravemente altri tre, prima di essere a sua volta ucciso da un poliziotto.
Già da tempo i sikh (25 milioni nel mondo; negli Usa sono 314 mila) lamentavano di essere divenuti oggetto di attacchi ripetuti: due sikh assassinati a Sacramento, un tempio devastato dai vandali in Michigan, un fedele del culto indiano malmenato a New York, per citare solo gli episodi più recenti. Ma è dall'attentato dell'11 settembre 2001 che il clima per i sikh, scambiati da molti americani per musulmani integralisti a causa della lunga barba, si è fatto pesante. E il killer del Wisconsin aveva la data 11/9 tatuata.
Adesso la gente si chiede perché un uomo cacciato dalle Forze armate (ma prima di essere espulso era stato decorato più volte) e che cantava il suo odio razzista nei locali punk, abbia potuto comprare legalmente l'arma con la quale ha compiuto la strage. La polizia, che col suo intervento tempestivo ha sicuramente limitato il numero delle vittime, ha accertato che Page è stato l'unico a sparare (ferendo gravemente anche un agente prima di essere abbattuto). Non era scontato, perché alcuni dei fedeli riuniti nel tempio per la celebrazione domenicale avevano parlato di sparatori, al plurale.
Ma adesso si cerca di capire se ci sono stati complici, se il passaggio dalla violenza verbale a quella fisica sia un viaggio che questo neonazista frustrato (definizione degli psicologi della polizia) ha intrapreso da solo.
E gli altri della band? E tutti gli altri gruppi di questo filone che fanno proselitismo nei loro festival? Parliamo di gente che, facendosi scudo di una Costituzione che protegge fino in fondo il diritto di esprimere qualunque opinione (anche se ora l'«hate crime» è perseguito) oltre a quello di armarsi, diffonde liriche incredibilmente violente contro ebrei, neri e gay. Testi che non possono essere pubblicati, ma che poi circolano nei canali di Internet. Un «buco nero» che non è solo un problema americano.
Barack Obama e Mitt Romney hanno espresso il loro cordoglio al governo indiano e alla comunità sikh. Il presidente ha detto di avere il cuore spezzato, ha parlato di nuovo di stragi che avvengono con troppa frequenza, della necessità di un «esame di coscienza». Ma di controllare il flusso delle armi ancora non se ne parla. E allora il sindaco di New York, Michael Bloomberg va avanti con la sua offensiva per spingere il Congresso, il presidente e il leader repubblicano a rompere questo tabù. Un suo «spot» trasmesso in tv durante i Giochi olimpici inchioda i due candidati in lotta per la Casa Bianca con un messaggio agghiacciante: «48 mila americani saranno assassinati con armi da fuoco durante il prossimo mandato presidenziale. Come tre stragi di Aurora al giorno».

La Stampa 24.8.12
Psichiatri, guerra a colpi di perizie sullo stato mentale dell’omicida
Sano di mente o schizofrenico: i rapporti dei medici rovesciati più volte
di Francesco Saverio Alonzo

OSLO Con l’avvocato Breivik in aula si consulta con il suo legale, Geir Lippestad, su che cosa dire ai giudici
Schizofrenico o sano di mente? È questo l’interrogativo attorno al quale si sono arrovellati i magistrati norvegesi Wenche Arntzen e Arne Lyng e i tre giudici popolari che oggi leggeranno il verdetto su Breivik.
E la domanda - 13 mesi dopo le stragi - resta senza una risposta chiara. Perché ai giudici una mano non l’hanno certo fornita gli psichiatri, bravi invece a complicare lo scenario. Nel novembre scorso una coppia di esperti, Torgeir Husby e Synne Sioerheim, aveva dichiarato, dopo aver incontrato Breivik ben 13 volte, che il pluriomicida era affetto da una grave forma di paranoia schizofrenica che lo rendeva incapace di volere e di intendere.
Da qui il rapporto del comitato di medicina legale e la logica conclusione del pubblico ministero Dtein Holden: «Breivik era gravemente psicotico quando commise i reati. In altre parole, era incapace di agire secondo la propria volontà». A minare da subito le conclusioni dei due esperti però è arrivato il professore di psichiatria svedese Johan Cullberg definendo le conclusioni del rapporto «scandalosamente prive di professionalità». Intanto Breivik aveva già reagito alle prime diagnosi, dichiarandosi sano di mente e pronto ad affrontare le conseguenze del suo gesto omicida di Oslo e Utoya.
I dubbi generati sulla sua salute mentale e la sua risolutezza a respingere ogni definizione di «pazzia» avevano indotto le autorità norvegesi ad affidarsi a una seconda coppia di psichiatri. Terje Toerrisen ed Agnar Aspaas fecero un secondo e più approfondito esame dello stato mentale di Breivik e il 13 aprile di quest’anno, cioè soltanto tre giorni prima dell’inizio del processo, presentarono un nuovo rapporto, diametralmente opposto al primo. Breivik - dicevano - era sano di mente e quindi pienamente capace di intendere e di volere quando commise la strage.
Il comitato di medicina legale non ratificò le conclusioni riservandosi però di ricavare ulteriori particolari dalle deposizioni dei due psichiatri, in veste di testimoni, in sede di processo. Un altro psichiatra legale, lo svedese Sten Levander aveva fatto osservare, a sua volta, che la nuova indagine presentava aspetti criticabili in quanto Breivik avrebbe avuto la possibilità di basare le proprie risposte sui risultati dei test precedenti, dando l’apparenza di essere capace. Forte dei risultati presentati dalla seconda coppia di psichiatri, Breivik esclamò, durante la prima udienza: «Vi ho liberato da una generazione di futuri governanti che avrebbero portato la Norvegia alla rovina! »
Certi particolari, emersi nel corso delle indagini istruttorie hanno rivelato però il carattere, chiuso, di colui che si definisce «un cavaliere templare volto a combattere la multietnicità e l’islamismo e che, fra trent’anni, sarà ritenuto un eroe in tutta l’Europa».
La sua fissazione sulle armi, sugli esplosivi e le notti intere trascorse a «giocare alla guerra» su Internet non depongono certamente a favore di un uomo di oltre trent’anni che vuole ritenersi «sano».
E il suo desiderio di essere condannato al carcere e rinchiuso in una cella di isolamento viene da lui spiegato con la necessità di scrivere la propria biografia, una specie di «Mein kampf» che il killer sogna di trasformare nella bibbia delle nuove generazioni europee.

Repubblica 24.8.12
“Pazzo, esaltato o sano di mente” Oslo si ferma per la sentenza Breivik
L’estate scorsa uccise 77 persone. Rischia al massimo 21 anni di carcere
di Pietro Veronese

Breivik si è dichiarato colpevole dell’omicidio di 77 persone negli attentati di Oslo e Utoya, è detenuto in 3 celle da 8 metri quadrati l’una: in una dorme, in un’altra fa attività, l’ultima è uno studio, rischia 21 anni di carcere, ma il periodo potrebbe essere prolungato se sarà ritenuto un pericolo per la società
È durato 68 giorni il processo a Anders Breivik. La prima udienza c’è stata il 16 aprile 2012, l’ultima il 22 giugno

OSLO — Un uomo pronto a un’accanita battaglia legale per non essere considerato pazzo attende questa mattina il suo verdetto. Nessuno dubita della sua colpevolezza e della pena che lo aspetta; ma è sulla ragione — o sragione — del suo orrendo crimine che la giustizia dei suoi simili si tormenta in queste ore. Lui è lucido, freddo, si attiene ai suoi programmi, come quella mattina di tredici mesi fa, il 22 luglio 2011, in cui con un’autobomba prima e poi con armi a fuoco rapido uccise 77 persone, in massima parte giovani. «Se la corte lo dichiarerà sano di mente, non farà appello, annunciano i suoi avvocati. E continuerà, in una delle tre celle di otto metri quadrati ciascuna in cui verrà rinchiuso, a scrivere i libri ai quali già lavora. Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, ascolterà la sentenza alle 10, nell’aula 250, al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Oslo. A chi pensasse che l’eccidio di un anno fa abbia indotto i norvegesi a rinunciare alla loro rilassatezza, allo spirito di accoglienza, alla disarmante semplicità dei costumi, una rapida visita ai luoghi del processo farebbe cambiare idea. È facile entrare nel palazzo lindo e ordinato, farsi ammettere come giornalista senza alcun controllo, aggirarsi tra i lavoranti del circo mediatico che lentamente stanno mettendo su le loro attrezzature, la selva di treppiedi e telecamere, i cavi per la diretta, arrivare fino alla porta dell’aula chiusa da un semplice giro di chiave. Questa mattina sarà diverso, la sicurezza starà più all’erta e gli ingressi saranno rigorosamente contingentati. La prossimità tra il tribunale e il luogo in cui ebbe inizio il crimine contro l’umanità di Anders Behring Breivik è davvero sorprendente. Saranno sì e no cento metri per raggiungere il palazzo del giornale VG, dove la bacheca sulla via espone ancora la copia del 22 luglio 2011 — un memento che ricorda l’orologio della stazione di Bologna. Sull’altro lato della strada il Palazzo del Governo, ancora coperto dalle impalcature, svuotato, deserto. L’autobomba, lasciata nel parcheggio sotterraneo undici minuti prima, esplose alle 15,26. Le vittime furono otto. Dopo aver assistito da lontano, l’assassino con un’altra macchina si diresse verso il lago Tyrifjorden e l’isoletta di Utoya, un tragitto di una quarantina di minuti. Qui compì l’ecatombe che nessuno riuscirà a dimenticare: sessantanove ragazzi che partecipavano al campo estivo del Partito laburista, uccisi uno per uno. Davanti ai suoi giudici ha detto di aver voluto «mandare un messaggio forte al popolo. Il famoso memoriale di 1.518 pagine che aveva postato sul web prima del massacro, e che nessun responsabile della sicurezza norvegese aveva preso sul serio, era stato più prolisso ed esplicito. L’obiettivo di Anders Behring Breivik era difendere «la cultura norvegese» dalla «immigrazione in massa dei musulmani» favorita a suo dire dalla politica laburista. Secondo Wikipedia, i musulmani sono in Norvegia poco più del 3 per cento della popolazione (dati 2008). Dopo l’arresto, e prima dell’inizio del processo, il mostro di Utoya venne sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato pazzo («schizofrenico paranoide » e «psicotico»). Ma quella prima valutazione sollevò in tutto il Paese una vasta reazione negativa, sia negli ambienti medici, dove ne fu contestata l’attendibilità scientifica, che presso l’opinione pubblica, la quale ne respinse invece le implicazioni morali. Dichiarare Breivik pazzo valeva come un’autoassoluzione collettiva: significava negare l’esistenza di settori della società norvegese che la pensano come lui, senza magari trarne le stesse disumane conseguenze; rifiutare di interrogarsi sul baratro ideologico e psicologico in fondo al quale erano maturate le ragioni — ragioni, sì, sia pure mostruose — del suo gesto. Era insomma un modo di non guardare in faccia il male. Una controperizia in aprile ribaltò la prima. Breivik, affermava, è «sano di mente e dun- que penalmente responsabile», ancorché affetto da un «disturbo narcisistico della personalità. Oggi sapremo se il collegio giudicante — due magistrati e tre giudici popolari (un consulente, un professore e un pensionato) — la condivide. Giornali e dibattiti televisivi della vigilia discutevano solo di questo: Anders Behring Breivik è pazzo, non è pazzo? La maggior parte dei norvegesi, sembra di intuire, pensa che non lo sia. In paradossale accordo con il carnefice alla sbarra, per il quale è di cruciale importanza che venga riconosciuta la motivazione politica di quello che ha fatto. Oggi sapremo se la sentenza rispecchierà questa opinione: che Breivik non è un folle, bensì un uomo smisuratamente cattivo. Comunque vada, la sua sorte è nota. Giudicato colpevole oppure pazzo, verrà rinchiuso nel carcere di Ila, subito fuori città, dove è pronto la reclusione di massima sicurezza e di totale isolamento predisposto specialmente per lui. Per compensare questo regime durissimo, volto a tenerlo separato da ogni altro essere umano, disporrà di tre angusti locali: uno per dormire, uno per lavorare, con un tavolo e un computer, uno per esercitare il corpo. La pena massima prevista dal codice penale norvegese è di 21 anni, al cui scadere, se il reo viene giudicato ancora pericoloso, la detenzione può essere prolungata. È ragionevole prevedere che Anders Behring Breivik non tornerà mai più in mezzo agli uomini.

Repubblica 25.8.12
“Volevo uccidere di più” L’ultima sfida di Breivik dopo la condanna a 21 anni
Massimo della pena per le stragi di Oslo. “È sano di mente”
di Pietro Veronese

OSLO — La tensione è esplosa come il lampo in un’atmosfera carica di elettricità, proprio alla fine, dopo sette ore e mezza di udienza. Anders Behring Breivik, l’autore della strage di Utoya, giudicato sano di mente, condannato a ventuno anni di reclusione, ha avuto diritto di parola. Ha detto che non riconosce la legittimità del tribunale. Poi ha accennato una frase che i presenti hanno interpretato come «chiedo scusa ai militanti nazionalisti in Norvegia e in Europa per non aver ucciso un maggior numero di persone. Ma non è riuscito a finirla, il suo microfono si è spento. La giudice Wenche Elizabeth Arntzen ha interrotto il condannato, la mascella serrata, lo sguardo durissimo, un tremito nella voce. Ha lasciato solo che l’avvocato di Breivik confermasse: non ricorrerà in appello. E la seduta si è chiusa. Attimi, gli unici che abbiano alterato l’algido rituale del diritto, una lettura interminabile della fattispecie del crimine seguita all’annuncio della sentenza con cui l’udienza si era aperta. Un lento accumularsi di orrore, la lettura spietata di tutti i nomi, tutti i cognomi, tutti gli anni di nascita delle 77 vittime. Tutti gli Anders e le Hanne, gli Henrik e le Monica, i Sondre e le Silje. Tutti i numeri dei proiettili di pistola e di carabina con cui furono abbattute, il 22 luglio dell’anno passato. La parola skudd, che vuol dire «colpo» e si pronuncia con la «u» molto chiusa, ripetuta un numero intollerabile di volte. Ragazzi e ragazze del ‘93, del ‘94, del ‘95 ammazzati con un solo colpo ma con due ferite, una alla mano e una alla testa, perché colti in un gesto estremo e vano di autodifesa. Altri cui il proiettile è entrato dalla bocca, uccisi a bruciapelo mentre emettevano l’ultimo grido, come il celebre quadro del norvegese Edward Munch, del 1893, che si conserva in questa città di Oslo e oggi appare una terrificante profezia. Il pubblico ascoltava ammu-tolito, i pm, gli avvocati di parte civile, i poliziotti non muovevano un muscolo, e Anders Behring Breivik nel suo completo scuro e la sua funebre cravatta grigia a pois neri, impassibile quale lo si è sempre visto, prendeva ogni tanto un appunto, come trovando inediti motivi di interesse in quel che aveva fatto. Il dilemma della vigilia, se l’imputato sarebbe stato giudicato pazzo, dunque irresponsabile, oppure capace di intendere e di volere e perciò colpevole, si è sciolto appena due minuti dopo l’ingresso della corte. Anders Behring Breivik ha accolto il verdetto con un sorriso sbieco di soddisfazione: essere condannato era ciò che voleva. Paradossale processo, in cui la pubblica accusa chiede una dichiarazione di infermità mentale e il reo confesso rivendica invece la razionalità del suo mostruoso crimine; e in cui la grande maggioranza della pubblica opinione — tre norvegesi su quattro secondo l’ultimissimo sondaggio — vogliono la stessa cosa dell’uomo che odiano più di ogni altro. La decisione dei giudici è stata accolta con sollievo generale, a cominciare dai parenti delle vittime, che avrebbero considerato l’altra scelta una forma di assoluzione. Pochi minuti dopo la chiusura dell’udienza, anche il Pubblico ministero ha annunciato che non farà appello. La sentenza è dunque definitiva. Il mondo si stupisce che l’ordinamento norvegese non preveda una pena maggiore dei 21 anni di reclusione, di cui soltanto i primi dieci, per giunta, non possono essere ridotti. Passato quel tempo, il condannato potrà cominciare a chiedere una diminuzione della pena. Ma se non si sarà pentito, o verrà considerato ancora pericoloso, resterà in prigione. E anche dopo 21 anni, se i magistrati riterranno queste condizioni ancora valide, la pena verrà prolungata, di cinque anni in cinque anni. Questa modularità, ispirata al principio della riabilitazione dei colpevoli, è parte di quel sistema norvegese basato sulla tolleranza e la liberalità contro il quale Anders Behring Breivik ha aperto il fuoco a Utoya. Oggi non c’è nessuno, nelle carceri della Norvegia, che stia ancora scontando una condanna a 21 anni o sia stato trattenuto dietro le sbarre al suo scadere. Ma nessuno aveva mai fatto strage di 77 uomini, donne, ragazzi, ragazze, la più giovane una tredicenne, mettendo a esecuzione un piano preparato per nove lunghi anni e scusandosi poi, davanti ai suoi giudici, per non essere riuscito a uccidere di più.

Repubblica 25.8.12
“È il male e non la follia” il coraggio di una nazione che non cerca attenuanti
Così la Norvegia ha perso la sua innocenza
di  Adriano Sofri

ERA quello che la Norvegia si augurava. È vero, tuttavia mi dispiace che si dica così. Mi dispiace che si insinui un dubbio sul tribunale norvegese.
Il dubbio, cioè, che i giudici abbiano fatto prevalere l’intenzione di andare incontro al desiderio di un popolo. Anche in quel popolo del resto il dubbio era stato lacerante via via che le perizie di psichiatri e medici e psicologi ed esperti di ogni genere si dividevano sulla mente di quel loro inspiegabile ripugnante concittadino. La prima reazione era inevitabile. Non solo perché si vuole scongiurare un male troppo grande, allontanarlo da sé, consegnarlo all’altro mondo della pazzia e dell’irresponsabilità. Ma anche perché la ragione rilutta ad ammettere un’enormità inimmaginata: che cosa considereremo pazzia, se non è pazzia la strage fredda e compiaciuta di decine e decine di persone inermi, di ragazze e ragazzi, e il rimpianto ripetuto, proclamato — ancora ieri, e quel sorriso — per non averne uccisi molti di più. Per non averli uccisi tutti. Che cosa è pazzia, se non questo? Poi, piano ma tenacemente, si è fatto strada un altro pensiero. Non è vero che il male troppo grande debba per forza essere irresponsabile. Non è vero che sia demoniaco, e caso mai demoniaco non vuol dire invasato e innocente. Il male e il bene si scelgono. C’è una pazzia — la chiamiamo così, gli esperti hanno una nomenclatura scrupolosa e vasta, i norvegesi le si sono addestrati lungo tutto un anno — che fa uscire gli umani da sé e fa compier loro atti che li lasceranno, una volta tornati in sé, attoniti e stremati. È una gran conquista quella che esonera dal giudizio penale chi sia stato sequestrato a se stesso dalla propria ossessione. Ma Breivik ha inteso e voluto fare esattamente quello che ha fatto, con quella riserva, che avrebbe voluto farlo di più. L’ha voluto per i lunghi anni della preparazione meticolosa, per le brevi interminabili ore della sua caccia all’uomo e ai ragazzi, per tutto il tempo che è venuto dopo, comprese le giornate trascorse col sorriso di sfida e di vanità sul banco degli imputati, l’ultima volta ieri. La pazzia più oscena — Breivik è stato un campione dell’infamia che si può realizzare da soli e in tempo di pace: dategli altre circostanze, e le decine di sterminati possono diventare milioni — può andare assieme alla responsabilità. La Corte l’ha riconosciuto padrone di sé, e l’ha fatto, pare, all’unanimità, dopo un processo in cui uno spazio senza precedenti era stato dato all’esplorazione di quella mente e della sua biografia: miele per la sua vanità sfrenata. C’era in realtà un ricatto opposto che pesava sulla Corte e voleva indurla a decidere altrimenti. Era la rivendicazione dello stesso Breivik, cui si erano piegati i suoi difensori, di essere dichiarato lucido di mente e colpevole. Esigeva così di essere riconosciuto come l’antesignano intrepido e strenuo di una crociata a venire, che si sarebbe riconosciuta in lui e l’avrebbe celebrato come il proprio eroe. Ho dubitato della sincerità di questa pretesa, che gli serviva a tenersi in piedi da combattente con la stessa premura con cui si annoda le orrende cravatte, e che magari gli faceva augurare una sentenza opposta, che ne facesse una persona da curare. Però sui giudici pesava quel ricatto: riconoscerlo come uno del loro mondo e del loro paese, uno come gli altri, che può arrivare a quel punto. I giudici sono stati coraggiosi, come si dice, ma soprattutto giusti. La loro sentenza vuol dire che la Norvegia non è più la stessa, e non vuole far finta d’essere la stessa. Che quello che le era inimmaginabile, unica attenuante a un’inettitudine terribile della risposta nelle ore della strage sulla quale anche, nei giorni scorsi, si è detta una parola finale, ora non lo è più. Che è potuto succedere, che potrebbe di nuovo. E che non sarà questione di sola prevenzione sociale e solidale, né di sola polizia. La lezione dell’enormità del suo crimine è che si può scegliere il male, si può perpetrarlo all’ingrosso, ma il male, anche il più sfrenato, non ha grandezza. Settantasette morti, innumerevoli feriti, un paese offeso, e l’autore: un miserabile. Ce l’ha fatta, si è detto amaramente, è diventato qualcuno. Non è vero. Fuori dalla Norvegia, in particolare in Italia, dove le pene massime si sciolgono in bocca a legislatori e giudici come caramelle, una condanna massima a 21 anni sembra irrisoria. Avrà 54 anni, allora, Breivik. Forse non uscirà nemmeno allora, se avrà dato motivo di ritenerlo ancora pericoloso. Ventun anni sono lunghi, del resto. Lo tratteranno bene: anche questo da noi sembrerà oltraggioso. Non lo è. Si deve rimpiangere che non l’abbiano ammazzato mentre compiva la sua opera, un assassinato al minuto, in ognuno di quei minuti, fino all’ultimo che ha freddamente assassinato, quando già aveva chiamato più volte la polizia per avvertire che voleva consegnarsi. Dopo quel momento, si poteva solo desiderare di non vederne più la posa e il sorriso, di non sentirne più i proclami. È quello che desiderano i norvegesi, gente civile.

La Stampa 25.8.12
Il Paradiso norvegese che ha scoperto il Male
Lo scrittore Nesbo: cambierà il nostro modo di pensare
In Norvegia la letteratura del Male ora deve fare i conti con la realtà
di Mario Baudino

DIETRO L’IDILLIO SOCIALE. Nei romanzi si parla spesso di forze oscure, ma ciò era percepito come fantascienza
LA REGINA DEL NOIR. Scrisse di assassini razzisti norvegesi, ma poi li trasformò in americani: «È più credibile»

Il massacro avrà un’influenza definitiva sul nostro modo di scrivere». Lo ha detto l’anno scorso al Festival di Edimburgo e ora, all’indomani della sentenza, Jo Nesbo non ha commenti da aggiungere. Il popolare autore di thriller con al centro la figura del detective Harry Hole aveva fiutato, all’indomani della strage, una nuova sensibilità: gli scrittori come lui, spiegava, forse non ne avevano ancora coscienza, ma già stavano inconsciamente cambiando, perché quell’orrore «sta lì, nelle nostre teste, e quel che c’è nelle nostre teste non potrà che trovare la sua strada verso la scrittura».
È passato un anno: Nesbo ancora non sa come ciò sia destinato ad accedere, ma è sicuro che stia influenzando «il nostro modo di pensare, di scrivere, di comunicare».
Ora, al telefono da Oslo, non vorrebbe aggiungere altro. Ha già detto tutto, o almeno tutto quel che si sentiva di dire. Inutile commentare la sentenza in quanto tale, anche perché non è la decisione dei giudici, peraltro largamente prevista, ciò che lo interessa. E a ben guardare neppure Anders Behring Breivik in se stesso, il suo caso personale di odio e di follia. «È il gesto di un folle - aggiunge -, e non cambia il mio punto di vista sulla Norvegia, che è poi la cosa che mi interessa davvero. Proba- L’autore
Tra qualche anno, lo ha ripetuto spesso, forse «guarderemo a quanto è avvenuto come a un disastro naturale». Ma con una differenza, come ci ricordava all’inizio dell’estate, quando lo intervistammo a proposito del suo ultimo libro, «Lo Spettro» (Einaudi) appena pubblicato in Italia: la Norvegia che aveva raccontato dalla prospettiva dei bassifondi di Oslo, guardandola dal mondo persino anacronistico degli eroinomani, era ed è un Paese fondamentalmente ingenuo, costretto all’improvviso a fronteggiare una realtà inspiegabile: quella stessa che i suoi personaggi di una Oslo disperata chiamano «la vita vera».La sentenza non aggiunge, in fondo non precisa né definisce meglio quanto è accaduto, lo lascia al suo spavento buio e quasi inscalfibile; e il problema per un norvegese, oggi, non è il numero degli anni comparato a quello degli omicidi.
Gli scrittori però raccontano da anni l’altra faccia di un Paese quasi irreale, (welfare generoso, petrolio, tasso di criminalità irrilevante, un’isola di benessere) insistendo nei loro romanzi in un’opera piuttosto sorprendente di evocazione delle forze oscure all’opera dietro il paravento dell’idillio sociale. Sembrava un gioco fantastico anche se girato al nero, forse persino una furberia commerciale: eppure la strage di Utoya è arrivata imprevista e inspiegabile anche per loro.
Anne Holt, la regina del noir («Nella tana dei lupi» è l’ultimo romanzo tradotto per Einaudi), ha raccontato qualche tempo fa che mentre faceva le ricerche per scrivere «Pangemannen», pubblicato poi nel 2009, si era imbattuta in una sorprendente quantità di siti razzisti e omofobi, dove si predicava l’odio contro gli immigrati, i musulmani, i gay. Ne trasse la storia di un’organizzazione che commetteva omicidi di tipo rituale, assassini invasati e bigotti, quasiun presagio di quanto sarebbe poi successo nella realtà. Il suo editore, mentre lavoravano sulla prima stesura, le consigliò di correggere il tiro, e fare del gruppo di assassini un’organizzazione americana. Sarebbe stato molto più credibile, visto che negli Usa ne esistevano parecchie; mentre nessun lettore avrebbe mai trovato verosimile una struttura del genere all’opera in Norvegia.

La Stampa 25.8.12
La gravità delle pene
di Vladimiro Zagrebelsky

L’ inumanità di ciò che ha fatto Breivik non deriva solo dalle decine di giovani vite che ha spento e dalle centinaia di feriti e mutilati che ha prodotto, ma anche dalla presunzione del superuomo che, per lanciare al mondo il suo messaggio, riduce a oggetto irrilevante la persona delle sue vittime. Vittime anche a suoi occhi incolpevoli, ma strumenti utili al suo disegno. Certa essendo – e anzi rivendicata - la sua colpevolezza, come resistere alla tentazione di trasferire dal fatto alla persona il giudizio di «non umanità»? Che farne? Come punirlo? Punirlo o renderlo inoffensivo, o entrambi? Come in altri atroci casi il dibattito esce dalle aule giudiziarie, dagli studi dei criminologi e dei penalisti, dai parlamenti e investe la società nel suo complesso. La richiesta è solitamente di maggior severità delle pene inflitte ed anche di lunga, se non definitiva, esclusione del colpevole dal consorzio sociale.
In Norvegia il difficile (impossibile?) quesito sulla capacità di intendere e di volere di Breivik è stato oggetto di sondaggio di opinione e la maggioranza ha detto di volerlo condannato piuttosto che internato in custodia psichiatrica. In Belgio, pochi giorni orsono, la liberazione condizionale dopo sedici anni di reclusione, della moglie complice del Dutroux che seviziò e uccise numerose giovani ragazze, ha spinto centinaia di persone a protestare in corteo, guidate da parenti delle vittime. In Italia le condizioni, spesso inumane, in cui i detenuti vengono tenuti in carcere non riescono a suscitare grande turbamento nella società. Negli Stati Uniti i candidati alla presidenza si guardano bene dal mettere in discussione la pena di morte, ma persino si tengono lontani dal problema della diffusione delle armi da fuoco, pur davanti alle ripetute stragi con esse compiute. Segnali diversi di un atteggiamento che ha tratti simili.
La storia delle pene criminali riflette la varietà degli scopi del potere statale di punire, dopo che lo Stato ne ha assunto il monopolio, progressivamente escludendo o limitando la vendetta privata. Essa illustra anche l’evoluzione dei costumi e della sensibilità umana, che ha portato via via ad attenuare le più atroci sofferenze inflitte ai rei. A lungo pene con sofferenze per noi oggi inconcepibili rimasero in vigore e furono praticate in società per altri versi celebrate come modelli di raffinata civiltà. Tra i tanti, la Venezia del ‘600 e ‘700 né può essere un esempio. Si trattava non solo della pena di morte, ma con essa di torture efferate, praticate in pubblico per punire il colpevole e, con le sue sofferenze, ammonire il popolo. Il popolo ne era intimorito, ma anche partecipava allo spettacolo. Ciò che in Europa fa parte della storia, è ancora visibile altrove nel mondo e qui da noi ora suscita orrore. Ma si tratta di storia nostra ancora recente e non priva di lasciti. Cesare Beccaria, solo duecentocinquant’anni orsono, combatteva la pena di morte e la pratica della tortura, ma per i più gravi reati suggeriva una pena gravissima, una «perpetua e gravosa detenzione»; sulla sua scia Denis Diderot, proponeva di sostituire la pena di morte con la «schiavitù perpetua», con «una dura e crudele schiavitù». E si trattava degli intellettuali più illuminati della loro epoca, quella in cui affondano le radici del diritto del nostro tempo. Nello stesso ordine di idee, la proposta del Comitato della legislazione penale dell’Assemblea costituente francese del 1789 di abolire la pena di morte, era accompagnata e sostenuta dall’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: «Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo». Una volta al mese la porta della cella sarà aperta «per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza».
E’ passato il tempo, i costumi si sono addolciti, la repulsione per la crudeltà, anche e specialmente se praticata dallo Stato, è cresciuta nella società. Ma la questione della gravità della pena da infliggere ai colpevoli di reati (non necessariamente solo dei più gravi) è sempre aperta e riguarda la giustificazione e lo scopo della pena, insieme alla legittimazione dello Stato e della società a infliggerla. La retribuzione per il male cagionato si accompagna alla preoccupazione di eliminare il pericolo che il criminale può rappresentare. Pene dolorose dunque, e lunghe o persino perpetue, come l’ergastolo («fino alla fine»). Ma a queste elementari richieste si accompagna ora, pur senza integralmente sostituirsi ad esse, un diverso atteggiamento, non disperato rispetto alla natura inemendabile del criminale, ma ottimista o almeno non chiuso alla speranza. Si tratta della scelta, anche propria della nostra Costituzione, che vede nella pena l’occasione e la possibilità di risocializzazione del reo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Pene lunghissime e tanto più le pene perpetue, non solo finiscono per applicarsi nel corso del tempo a persone che necessariamente sono diventate radicalmente diverse da quelle che hanno commesso il delitto (perché allora continuare a punirle?), ma in più, sopprimendo ogni speranza nel detenuto, lo incattiviscono piuttosto che aprirlo a rapporti corretti con gli altri. Chi opera nelle carceri a contatto con i detenuti conosce questa dinamica nell’esecuzione delle pene.
Sono questi degli argomenti che rispondono alle domande di fondo sul potere o addirittura del dovere di punire? E sul come e quanto punire? O sono solo considerazioni che arricchiscono il quadro, mostrando quanto complesso e relativo esso sia? Forse senza risposta definitiva e tranquillizzante.

La Stampa 26.8.12
“Per Breivik bastano 21 anni Ha vinto la civiltà norvegese”
A Oslo fra i parenti delle vittime di Utoya: “Nessuno tornerà su quell’isola”
di Giovanni Cerruti

In memoria La commemorazione delle vittime del 22 luglio 2011 davanti alla cattedrale di Oslo Quel giorno Breivik uccise 77 persone la maggior parte giovanissime Ha avuto la pena massima prevista dalla legge norvegese 21 anni di carcere Sano di mente Anders Breivik in tribunale il giorno della sentenza. Non ha mostrato nessun pentimento, ma non ha ottenuto l’infermità mentale, nonostante dichiarazioni come «Mi scuso per non aver ammazzato più persone»
Si erano dati appuntamento davanti al palazzone di mattoni della Norge Rode Kors alle nove del mattino, come ogni sabato. Riunione del «Comitato 22 luglio», il giorno dopo la sentenza. Ma i giornalisti, tutti stranieri, sono troppi. «Scriveremo sul nostro sito Internet che non intendiamo rilasciare altre dichiarazioni», dice Trond Blattmann, il presidente. Anders Breivik è lassù sulla collina di Ila, per 21 anni nelle sue tre celle. «Cos’altro dobbiamo dire, noi? Perché scavare ancora nel nostro dolore? ». C’è pudore, tra chi arriva nella palazzina della Croce Rossa. Lo vogliono proteggere, schivano le tv. E se ne andranno altrove.
Non c’è giornale, o media, o commentatore norvegese che abbia contestato la sentenza. «Non capisco chi si stupisce per i 21 anni di condanna dice, prima di andarsene in bicicletta, Lisbeth Royneland -. Breivik ha ammazzato mia figlia Synne, aveva 18 anni. E io posso affermare che questa sentenza è buona, molto buona. In Norvegia è la più severa che un colpevole potesse ottenere, e sono abbastanza sicura che non uscirà mai da quel carcere». Può sembrare strano, ma qui nessuno si è messo a far di conto, a dividere i 21 anni di condanna con il numero delle 77 vittime. «Ci basta la sentenza giusta dei nostri giudici», dice Lisbeth.
Il «Comitato 22 luglio» continuerà a riunirsi tutti i sabato: il processo è finito, ma non potranno dimenticare. Nessuno ha voglia di tornare a Utoya, però saranno loro a decidere il futuro dell’isoletta del massacro. È di proprietà dell’organizzazione dei Giovani dell’Arbeidepartiet, il Partito Laburista. «Anche se non sarà semplice, un accordo lo troveremo - dice Mona Bakke -. Mio fratello André è morto là a 27 anni, e ho ancora addosso troppe emozioni, non saprei cosa decidere. Quest’anno i ragazzi non sono andati al campo estivo: tra loro c’è chi vuol tornare per onorare i nostri morti e chi la sentirebbe come una profanazione». Costruiranno un Museo della Memoria, a Utoya, e il Consiglio Nazionale dei Giovani Laburisti la scuola estiva la vorrebbe riaprire. Abbatteranno la Kafèbygget, la casa del caffè dove Breivik ha ucciso i primi 13 ragazzi. Ma ci vorrà tempo, anni. E nemmeno Eivin Rindal, che il 22 luglio 2011 era a Utoya e venerdì in aula per la sentenza, sa immaginare un futuro per Utoya. «Dobbiamo andare avanti piano. E ora mi voglio soltanto abbandonare al risultato del processo. È stato un verdetto che protegge al meglio la nostra società da un individuo come Breivik e dal suo odioso progetto politico».
Mette Yvonne Larsen è l’avvocato del «Comitato 22 luglio». Mercoledì, saputo che la lettura della motivazione sarebbe stata lunga 90 pagine, aveva indovinato la pena: e che la Corte non avrebbe ceduto sulla follia invocata dai Pm. «Quel che forse lontano da qui non si capisce è che per noi era importante il riconoscimento del principio di piena responsabilità - spiega -. Breivik era consapevole delle conseguenze della sua ideologia paranazista, contro la società multietnica e gli immigrati musulmani». Che qui sono il 3%. «La sentenza allevia il dolore, e cominceremo a metterci alle spalle la tragedia».
I quotidiani di Oslo riportano i primi sondaggi. Solo il 4% pensa che Breivik sia un matto, per l’85% la sentenza è corretta, per il 54% aumenta la fiducia nella magistratura. Sulle prime pagine una grande foto e basta: o Breivik che esce dall’aula, o i suoi polsi ammanettati, o il giudice Elizabeth Arntzen nell’espressione più severa, mentre toglie la parola a Breivik. Più che le reazioni del «Comitato 22 luglio», spazio ai motivi della condanna: «Gli esseri umani non sono buoni o cattivi, ma sono in grado di scegliere tra azioni buone e cattive. Esiste la libertà di scelta. E Breivik, consapevole, ha scelto il male».
Consapevole, affatto pazzo. Dalla Thailandia lo dichiara anche Tore Tollefsen, 75 anni, patrigno di Breivik. Davanti alla Cattedrale lo scrivono sui bigliettini accanto al grande cuore rosso infilato nel prato, tra mazzi di fiori e le fototessera dei 77 morti: «Era responsabile». Nel sabato di Oslo, piena di turisti e dell’ultimo timido sole d’agosto, davanti al Palazzo di Giustizia resta una grande agitazione. Ma le postazioni tv se ne sono andate, è il giorno dei matrimoni civili. C’è la festa, balli, colori: turchi, curdi, pachistani, cingalesi... Matrimoni allegri, con norvegesi. È un’altra condanna, per Breivik.


3. FILOSOFIA E CULTURA

Corriere 21.7.12
Albert Einstein, un gigante sulle spalle di molti nani
Jürgen Renn: «Fu una comunità scientifica a scoprire la relatività»
di Nuccio Ordine

«La storia della scienza non è fatta solo di nani sulle spalle di giganti ma è fatta anche di giganti sulle spalle di "nani"»: Jürgen Renn, direttore dell'Istituto Max Planck per la Storia della Scienza di Berlino, ha impiegato anni di ricerche per ricostruire l'ambiente culturale e scientifico in cui Albert Einstein ha concepito e realizzato le sue grandi scoperte. I risultati di questo lavoro sono confluiti in un importante volume ora pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (Sulle spalle di giganti e nani. La rivoluzione incompiuta di Albert Einstein, pp. 361, 30, traduzione di Giuseppe Castagnetti, Massimiliano Badino, Arianna Borrelli).
Il titolo evoca il celebre aforisma che, secondo il racconto di Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon, avrebbe coniato Bernardo di Chartres per indicare che chi viene dopo ha il vantaggio di vedere più lontano perché sale sulle spalle di coloro che l'hanno preceduto. Un aforisma che — indipendentemente dalla questione di chi sia stato veramente il primo a inventarlo — ha conosciuto una lunga storia dal Medioevo al Rinascimento, dal Seicento al Novecento attraversando i saperi più diversi: dalla teologia alla filosofia, sino al dibattito sulla scienza.
Jürgen Renn, partendo proprio dall'esperienza umana e intellettuale di Einstein, ha voluto invece ricostruire la storia di quei «nani» che hanno permesso al gigante scienziato, nei suoi studi pubblicati nel 1905 e nel 1915, di formulare le sue grandi scoperte sui concetti di moto, gravità, materia, tempo, spazio. Innamorato dell'Italia e affermato studioso del Rinascimento, il direttore dell'Istituto Max Planck accetta volentieri di raccontare al «Corriere» le sue ventennali ricerche sul teorico della relatività. «I miei colleghi e io abbiamo cercato di capire — esordisce — come l'aforisma dei nani e dei giganti, rilanciato anche da Newton, non fosse sufficiente a spiegare in maniera corretta il complesso e complicato percorso della scienza. L'attenzione non può essere focalizzata solo sui nani-giganti, il cui ruolo fondamentale è stato, volta per volta, riconosciuto nella storia. Esiste anche un mondo sommerso di "nani", spesso sconosciuti, che hanno permesso ai nani-giganti di operare le loro straordinarie rivoluzioni. Il caso di Einstein è un esempio eclatante per documentare questo processo».
«Basta ricostruire — continua lo studioso tedesco — il milieu della fantasiosa Accademia Olimpia: qui, a partire dal 1902, Albert frequenta Conrad Habicht e Maurice Solovine. Sono anni intensi di discussioni sulla letteratura (Cervantes e Dickens), sulla filosofia (Spinoza e Hume), sulle metodologie della scienza contemporanea (Mach e Poincaré)». Senza il libero dialogo con questa stimolante comunità, sarebbe stato difficile affrontare in maniera non convenzionale una serie di questioni scientifiche vitali.
«Oltre alla preziosa amicizia con Marcel Grossmann — aggiunge Renn — anche l'esperienza vissuta all'Ufficio Brevetti di Berna ha giocato un ruolo fondamentale. Einstein ha avuto modo di frequentare amici come Mileva Mariç e Michele Besso. Non a caso Besso, sconosciuto ingegnere senza successo, sarà ringraziato da Albert nel primo articolo sulla relatività del 1905».
Idee decisive, insomma, possono anche venir fuori da conversazioni in cui si abbattono i confini tra discipline e, soprattutto, si mettono in discussione i dogmi più accreditati. «In quei fecondi scambi — insiste Renn — era evidente il rifiuto per i saperi eccessivamente specializzati e per la concezione borghese della morale. Da un eccezionale sognatore come Besso, infatti, Albert riconosce di aver ricevuto sollecitazioni che non avrebbe mai potuto ricevere nell'ambiente accademico tradizionale. Proprio in questo contesto, il nostro scienziato svilupperà una coscienza critica che gli permetterà di coltivare quella sensibilità civile di cui gli anni di Princeton e delle battaglie contro l'atomica rappresentano la vetta più alta».
Ma il caso Einstein si presta anche a discutere una serie di interrogativi fondamentali per la storia della scienza: come è possibile, ad esempio, conciliare il progressivo sviluppo delle conoscenze con le rivoluzioni scientifiche che, a un certo punto del percorso, mutano radicalmente i paradigmi del sapere? In che maniera la rivoluzione copernicana (il cambiamento dal sistema geocentrico a quello eliocentrico) ha potuto convivere con le teorie accumulate nel corso dei secoli precedenti?
«Einstein — incalza Renn — è protagonista di una di queste grandi rivoluzioni: le sue teorie segnano il passaggio dalla fisica classica newtoniana alla fisica relativistica. Ma questo capovolgimento non implica che le conoscenze accumulate in precedenza vadano perdute: le scoperte di un Galileo o di un Newton sono state, nello stesso tempo, contraddette e confermate».
Il «nuovo» non cancella improvvisamente ciò che lo precede, ma permette di riutilizzare scoperte e strumenti del passato. «Le nostre ricerche — specifica Renn — mostrano come la successione delle teorie scientifiche possa seguire un modello evoluzionistico: nel senso che risultati marginali in teorie anteriori possano poi assumere una centralità in teorie successive. Si pensi, per citare un esempio, alla "variabile strana" per trattare il tempo nell'ambito dell'elettromagnetica, introdotta da Hendrich Lorentz: ciò che poteva sembrare periferico nel sistema del premio Nobel per la fisica, più tardi assumerà invece una rilevante centralità nel nuovo concetto di tempo all'interno della relatività di Einstein».
Lo studioso tedesco ci tiene a ricordare il ruolo importante che diversi ricercatori italiani hanno avuto nel suo Istituto di Berlino. «A questa ricerca collettiva — spiega — hanno dato un contributo notevole anche giovani italiani che negli ultimi due decenni, a vario titolo, hanno collaborato con il Max Planck. L'Italia, del resto, ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia della scienza: penso a maestri del calibro di Eugenio Garin e Paolo Rossi o, prima ancora, a Favaro. Non si può parlare di scienza senza tener conto del Rinascimento italiano».
Ma il discorso sull'Italia offre l'occasione per qualche considerazione di carattere personale. «Ho conseguito il mio dottorato a Roma con il fisico Giovanni Gallavotti. Ho imparato l'italiano a lezione dal traduttore di questo libro, Giuseppe Castagnetti. Un amore trasmesso a due dei miei figli che parlano perfettamente la vostra lingua».
La rete di relazioni scientifiche intrecciate con tanti italiani e con il Museo Galileo di Firenze, diretto da Paolo Galluzzi, permette a Renn di cogliere anche un elemento di forte contraddizione nel nostro sistema universitario: «I continui tagli alla ricerca e all'istruzione — osserva preoccupato — minacciano seriamente il futuro di un grande Paese come l'Italia. Mi capita spesso di parlare con bravissimi ricercatori italiani disperati che non trovano strutture per accoglierli. Da noi, in Germania, le cose vanno diversamente. Proprio nei momenti di crisi bisogna aumentare i finanziamenti per la ricerca e per la formazione delle future generazioni. Così, al Max Planck, le risorse consentono di sostenere progetti ambiziosi di lunga durata».

l’Unità 21.7.12, è un Sabato, il quotidiano esce nelle edicole con LEFT
Riprendersi la speranza
Parla Alessandro Barban priore di Camaldoli
La crisi vista dal convento in cui fu elaborato il famoso Codice
di Roberto Monteforte
qui

l’Unità 23.7.12
La politica secondo Karl
Studiare Marx economista non dimenticare il filosofo
Questo confronto riprende le discussioni degli anni Ottanta. Ma evidentemente
il problema non è stato risolto
Si rischia di accantonare la complessità dell’analisi sul lavoro e la produzione All’origine della rimozione le teorie di Hannah Arendt
di Luca Baccelli
qui

l’Unità 24.7.12
Il viaggio più difficile
I filosofi guardano al flusso della vita come a un «andar via di qua»
Da Morin a Curi tanti i saggi che si interrogano sulla morte, come fine definitiva dell’esistenza o passaggio a qualcos’altro
di Gaspare Polizzi
qui

Corriere 24.7.12
Il Vangelo e Confucio un incontro mancato
Perché venne dispersa l'eredità di Matteo Ricci
di Paolo Mieli

L'impresa fu straordinaria, ebbe quasi dell'incredibile e basterebbe da sola a testimoniare il ruolo che ha avuto nella storia la Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola tra non poche complicazioni, ben descritte in un importante libro di Guido Mongini, Ad Christi similitudinem. Ignazio di Loyola e i primi gesuiti tra eresia e ortodossia, edito da Dell'Orso, che riferisce come il fondatore della Compagnia fu processato dall'Inquisizione otto volte, in Spagna, Francia e Italia. Comunque alla fine la Compagnia di Gesù fu approvata, nel 1540, da papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese. E nel giro di pochi decenni tale struttura fu in grado di «offrire» alla Chiesa personalità che ne avrebbero radicalmente cambiato il volto. Personalità cattoliche che avrebbero guidato il mondo nella modernità.
Ed eccoci all'impresa. L'uomo che ne fu il protagonista, Matteo Ricci, era nato a Macerata nel 1552. Fu mandato dal padre, farmacista, a Roma nel 1568 perché si iscrivesse all'università, studiasse diritto e di lì spiccasse il volo per una brillante e redditizia carriera. Matteo però deluse il genitore e il 15 agosto del 1571, alla vigilia del compimento dei 19 anni, si presentò al noviziato dei gesuiti sul colle del Quirinale per chiedere di essere ammesso nella Compagnia. Ma era solo un primo passo. All'epoca, sotto il patronato dei re e dei viceré portoghesi, i gesuiti — sulle orme di Paolo da Camerino, Antonio Criminali, Niccolò Lancellotti e successivamente Alessandro Valignano, i primi ad essersi recati in missione a Goa e sulla costa Malabarica — erano già divenuti la più potente arma spirituale della presenza lusitana in India, dove avevano fondato sei collegi e sedici, più piccole, residenze. Nel 1577 Ricci compì il passo successivo e decise di partire, via Lisbona, alla volta dell'India. Aveva 24 anni. Ed era solo l'inizio di un'avventura che lo avrebbe portato a Pechino, addirittura nel cuore della città proibita. Talché Un gesuita nella città proibita (pp. 420, 30) è il titolo del libro scritto da Ronnie Po-chia Hsia, storico cinese (ma insegna all'Università di Pennsylvania) già molto conosciuto per un eccellente studio sulla Controriforma. Il suo saggio, pubblicato dal Mulino, ha il pregio di essere costruito su un esame assai accurato della ricca e complessa documentazione di parte cinese sull'intera vicenda.
Ma torniamo al nostro personaggio. La Lisbona in cui Ricci giunge nel 1577 è, con i suoi centomila abitanti, una delle maggiori città europee, superata solo da metropoli come Parigi e Istanbul, anche se il Portogallo, con il suo milione e mezzo di abitanti (contro i 14, ad esempio, della Francia) è uno dei Paesi meno popolati d'Europa. Siede sul trono Sebastiano, nipote per parte di madre (Caterina) dell'imperatore Carlo V d'Asburgo e cugino di Filippo II di Spagna. Sebastiano è galvanizzato dalla vittoria di Lepanto (1571), in cui le navi spagnole, veneziane e pontificie hanno sconfitto la flotta ottomana. Guarda lontano, incoraggia perciò la missione dei gesuiti in India e, poco dopo la partenza di Ricci (23 marzo 1578), si mette alla testa un esercito di 15 mila uomini alla volta del Marocco, dove troverà prematura morte, quattro mesi dopo, nella bruciante sconfitta di Alcazarquivir. Ma all'epoca di Alcazarquivir i nostri gesuiti era già imbarcati su tre velieri diretti verso l'India. In un viaggio nel quale alle insidie dei mari si aggiungevano le malattie (l'indice di mortalità dei religiosi nel corso di quel genere di tragitti era del 15 per cento) e altri rischi. Nel 1570, ricorda lo studioso, un'imbarcazione portoghese proveniente dal Brasile era stata intercettata da pirati francesi (ugonotti): raggiunto il veliero, i francesi lo avevano preso d'assalto e saccheggiato. Avendo poi trovato fra i passeggeri Ignacio de Azevedo, superiore della missione gesuitica in Brasile, insieme a un gruppo di missionari novizi, gli ugonotti avevano risparmiato l'equipaggio portoghese, ma avevano gettato in acqua i 40 gesuiti, divenuti da allora martiri della Compagnia.
I seguaci di Sant'Ignazio davano un carattere assai religioso alla loro navigazione: il mattino «dedicavano un'ora alle preghiere e, una volta alla settimana, alla confessione»; facevano quindi il giro della nave visitando gli ammalati «per portar loro sollievo spirituale e fisico»; recitavano regolarmente le litanie, «spesso più volte al giorno», e «di notte guidavano l'equipaggio nel canto degli inni e nelle preghiere per evitare le risse». In quei giorni, per propiziare i venti (ma probabilmente lo avrebbero fatto comunque), «guidarono una processione da poppa a prua e poi di nuovo a poppa nella quale furono esposte le reliquie destinate alla loro chiesa di Goa»: la «testa di santa Gerasina, compagna di sant'Orsola, consolatrice delle undicimila vergini martiri di Colonia» e quella di San Bonifacio martire; a fine maggio su ciascun veliero «furono organizzate, per celebrare il Corpus Domini, processioni accompagnate da musica e dall'ostensione delle reliquie». Preghiere e atti di devozione coincisero — anche se sarebbe arduo stabilire un rapporto di causa ed effetto tra le due cose — con l'arrivo dei venti da ovest, che favorirono la navigazione verso il capo di Buona Speranza.
Ci vollero sei mesi per giungere a Goa. Lì i convertiti costituivano la maggioranza della popolazione. «E ciò spiega l'importanza della cristianizzazione come una delle fonti essenziali per il mantenimento del colonialismo lusitano», scrive Po-chia Hsia: «In buona sostanza i portoghesi (clero compreso) consideravano l'appartenenza alla cristianità sinonimo dell'essere portoghese, anche per ciò che concerneva la lingua parlata, il modo di vestire, il cibo e la fede». A Goa Ricci si distinse perché entrò a far parte di quella minoranza che si batteva contro la discriminazione razziale e, anzi, per l'immissione degli indiani nella Compagnia. E in quel luogo rimase tre anni.
Ancora più importante fu il passaggio successivo, quando il nostro gesuita si trasferì a Macao, sulla costa cinese. Qui i portoghesi (ottocento circa) erano apprezzati perché, a causa del divieto di rapporti commerciali tra Cina e Giappone, fungevano da indispensabili intermediari tra i due Paesi. Anche in virtù del fatto che — a differenza degli emissari inglesi e spagnoli — avevano accettato tutti i rituali di sottomissione, come quello di genuflettersi al cospetto dei mandarini e chinare il capo fino a toccare terra. Nel 1575 papa Gregorio XIII aveva promosso Macao a diocesi (con giurisdizione su Cina, Giappone e Corea) e l'aveva affidata al vescovo Belchior Carneiro, anch'egli gesuita. Ma i religiosi della Compagnia in quel fazzoletto di terra erano solo cinque. Ed erano cinesizzati. In un breve volgere di tempo Matteo Ricci si fece egli stesso, per così dire, cinese. Lo spagnolo Alonso Sanchez, uno dei suoi compagni nella missione in Cina, così lo ritrasse: «È simile in tutto e per tutto ai cinesi e sembra uno di loro per la bellezza dell'ingegno, per la delicatezza, gentilezza, soavità e specialmente per la grande intelligenza e memoria, tutte doti che loro tengono in grande considerazione; difatti, oltre a essere un ottimo teologo e astronomo, cosa che loro tanto apprezzano, egli ha imparato in brevissimo tempo la loro lingua e così tanti caratteri da essere in grado di parlare con i mandarini senza bisogno di un interprete, un fatto che essi apprezzano e ammirano enormemente».
Di qui, vestiti e rasati di barba e capelli alla maniera dei monaci buddisti, lui e Michele Ruggieri si trasferirono a Zaoqing dove furono presi sotto la protezione di una delle massime autorità del luogo: Wang Pan. Wang Pan desiderava un erede maschio e quando lo ebbe ritenne che fosse merito di Ricci e del suo compagno. A Ruggieri, che secondo l'autore «fu in effetti il fondatore della missione gesuita in Cina», fu concesso di tradurre il catechismo in cinese, adattandolo al pubblico a cui era destinato. Il primo battesimo fu somministrato a un povero trovato per strada e in punto di morte. I successivi, invece, furono per degli autentici convertiti. Ma non tutto filò liscio: in questo periodo Ricci fu «angosciato dalla latente (se non dichiarata) ostilità della popolazione locale»; si trovò «molto più a suo agio in compagnia delle élite intellettuali a cui era più affine»; presto fu chiaro che le sorti sue e di Ruggieri «dipendevano dalla benevolenza dei mandarini». Poi, nel 1588, Ruggieri tornò a Macao, quindi a Lisbona e a Roma, per invocare l'invio di un'ambasceria papale presso la corte Ming, e Ricci rimase solo. In seguito fu raggiunto dal giovane gesuita Antonio Almeida e successivamente da Francesco de Petris. Ma nel giro di un paio di anni (1589-1591) morirono entrambi. Gli fu mandato allora Lazzaro Cattaneo e con lui Ricci compì la «svolta confuciana»: nel 1595 decise di lasciare le vesti buddiste per indossare lunghi abiti di seta e il cappello a quattro punte tipico degli eruditi confuciani. La meta, dopo una lunga serie di peregrinazioni in terra cinese, era a questo punto Pechino. Ma avrebbe dovuto attendere il 1600, quando ottenne il permesso di entrare nella città (che aveva già visitato nel 1598), nonostante l'ostilità dell'eunuco Ma Tang. Nel frattempo però aveva conquistato i letterati di Nanchang (dove era rimasto tre anni) i quali erano «meravigliati dalla sua abilità nel citare interi passaggi dei classici confuciani e rimanevano senza parole quando mostrava di saper recitare anche al contrario qualsiasi brano gli venisse sottoposto».
«Più Ricci si comportava come un membro dell'élite cinese», sottolinea Po-chia Hsia, «più il suo successo cresceva». Successo che raggiunse l'apice allorché nel settembre del 1596 ci fu un'eclissi solare che lui, a differenza dell'osservatorio astronomico imperiale, aveva previsto con mesi di anticipo. Poi a Nanchino (già capitale della Cina fino al 1421 e per molti versi rimasta tale anche nei secoli successivi) era entrato nei favori del potente Wang Zhongming.
Qui inizia la parte più avvincente del libro Un gesuita nella città proibita, che riesce a raccontare — in virtù proprio della consultazione dei documenti cinesi — gli intrighi alla corte dell'imperatore Wanli con una grande quantità di particolari inediti per la letteratura occidentale. Nei primi dieci anni del Seicento, Ricci, con l'appoggio dell'imperatore, mise radici a Pechino dove, fatto davvero eccezionale, gli fu consentito di risiedere. Fu quella, però, un'epoca tutt'altro che tranquilla. Nel 1604 giunse nella capitale imperiale la notizia che, tra ottobre e novembre dell'anno precedente, sull'isola di Luzon gli spagnoli avevano massacrato tra i 15 e i 20 mila cinesi, quasi l'intera comunità. Nel 1605 un gruppo di mandarini, infastiditi dagli attacchi di Ricci al buddismo, presentò una petizione all'imperatore per chiedere la revoca dell'appannaggio e il rimpatrio dei gesuiti. A peggiorare la situazione fu l'inizio dei conflitti generati dall'ingresso degli olandesi sui mari dell'area (nel 1607 l'Olanda sferrò un attacco a Macao). Si moltiplicarono le voci che davano per imminente un «complotto gesuita» per spodestare la dinastia Ming. Nel 1607 a Shaozhou fu diffusa una petizione firmata da quattrocento intellettuali in cui si chiedeva l'espulsione di Niccolò Longobardo (il gesuita destinato a succedere a Ricci) accusato di «perturbazione della pace». Ma Ricci in quei dieci anni risente relativamente dei conflitti in corso. Ha ormai il rango di un ministro al servizio dell'imperatore, riceve i mandarini e i futuri funzionari del regno senza mai mettere piede fuori dalla capitale imperiale. Il suo libro Il vero significato del Signore del Cielo (1603), redatto in forma di dialogo tra un occidentale e un erudito cinese, lo consacra come una delle più grandi personalità della Cina dei Ming. Affida a un carteggio con Yiu Chunxi i termini della sua polemica contro il buddismo.
Quando Ricci muore, all'età di 58 anni, nel maggio del 1610, trionfa «sui suoi nemici persino nella morte». Wanli concede l'onore del patrocinio imperiale alle sue esequie, a cui partecipano i mandarini Xu Guangqi e Li Zhiao. Matteo Ricci fu il primo ma non l'ultimo dei gesuiti a trovare sepoltura in terra cinese. Dopo di lui — e prima dello scioglimento della Compagnia — di gesuiti ne giunsero in Cina circa ben cinquecento, provenienti da Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Belgio, Polonia, Austria, Germania, con l'aggiunta di un discreto numero reclutato in loco. Se la parte gesuitica dell'eredità ricciana, scrive Po-chia Hsia, fu assicurata da una serie di missioni nei successivi centosessant'anni, «il suo impatto sulla comunità cristiana cinese diede a quest'ultima la possibilità di sopravvivere alla crisi catastrofica sopraggiunta in conseguenza del mutamento dinastico intorno a metà del Seicento».
Qu Rukui, tra i più importanti amici di Ricci in Cina, aveva accettato di essere battezzato solo nel 1607, ma quel battesimo non poté essere impartito, perché Qu non voleva rinunciare al concubinato. Dopodiché, soltanto a seguito della morte della prima moglie e del «matrimonio con la concubina», Qu Rukui era diventato a tutti gli effetti membro della Chiesa cattolica, in omaggio alla quale decise di dare al proprio figlio quindicenne il nome di Matteo (a Ricci attribuiva oltretutto il merito di avergli procurato quella paternità). Ai tempi della scomparsa di Ricci, i convertiti in Cina erano circa 2.500 e salirono a 13 mila all'inizio del regno di Chongzhen (1628). Questo regno durò 16 anni, alla fine dei quali (1644) i cristiani cinesi erano ben 70 mila.
Tale crescita avvenne a dispetto del fatto che il successore di Ricci, Niccolò Longobardo, ne criticasse il metodo (nei confronti del quale già in anni precedenti aveva detto di sentirsi «a disagio»), ne disapprovasse pubblicamente la sintesi confuciano-cristiana e mettesse in dubbio che i principali mandarini e letterati avessero davvero capito gli insegnamenti ricciani. Longobardo, in ciò confortato dai gesuiti del Giappone, stabilì che il confucianesimo era ateo e che gli studiosi Ming erano filosofi materialisti. Convinto che la sintesi del cattolicesimo e del confucianesimo avessero compromesso la purezza dottrinale della Chiesa, nel 1623 Longobardo scrisse un trattato dove esprimeva la tesi secondo cui «i filosofi neoconfuciani propongono un universo materialista, mentre i letterati cinesi vanno considerati fondamentalmente atei», e si opponeva energicamente alla «distinzione tra un'antica filosofia cinese intatta, naturalista e quasi cristiana e un neoconfucianesimo corrotto». Ma nel 1627 undici preti distaccati in Cina e fedeli all'insegnamento di Ricci si riunirono per una conferenza a Jiading; successivamente la maggior parte dei gesuiti, sotto la guida del belga Nicolas Trigault, riprese a sostenere, con l'appoggio della classe dirigente dei funzionari cinesi convertiti, la strategia missionaria di Ricci.
La spaccatura era ormai evidente e in Cina, tra i cattolici, iniziò la fase della «controversia dei riti». Verso la metà del Seicento il gesuita francese Jean Valet, che sosteneva la posizione di Longobardo, passò una copia del suo trattato al frate francescano Antonio Caballero che la diede a sua volta al frate domenicano Domingo Navarrete: da quel momento abbracciarono le posizioni anti Ricci.
Chi vinse tra i due schieramenti? Nessuno. Nicolas Trigault che, come si è detto, era uscito vittorioso dalla conferenza di Jiading, non riuscì poi a sostenere il peso della tensione nervosa, cadde in una lunga depressione e nel novembre del 1628 si impiccò. I gesuiti nascosero quel suicidio e fecero riferimento a esso solo in codice. Ma ne furono oltremodo indeboliti, tanto più che su di loro incombeva un'altra catastrofe. Nel marzo del 1644 i contadini ribelli espugnarono Pechino e le truppe manciù dilagarono all'interno del Paese, varcando la Grande Muraglia. Il regime Ming entrò in una lunga, inesorabile agonia, che ne avrebbe decretato l'estinzione nel giro di una quarantina di anni. Anni durante i quali morirono di morte violenta milioni di persone e non pochi missionari gesuiti.
I Ming, per resistere, accolsero gli aiuti occidentali, si presentassero come portoghesi armati o «consiglieri» gesuiti. La fede nel Dio dei cristiani sembrò essere per questi ultimi dominatori della Cina un'estrema risorsa. Nel 1648 la corte di Yongli, l'ultimo imperatore dei Ming meridionali, annunciò tre conversioni clamorose: quella dell'imperatrice titolare e di due imperatrici vedove, che presero il nome di Anna, Elena e Maria. Lo stesso Yongli valutò per sé l'ipotesi di un'adesione alla fede cattolica, ma desistette per non essere costretto a rinunciare alla poligamia. Fece però battezzare suo figlio con il nome di Costantino. Nel 1662, però, padre e figlio furono strangolati nello Yunnan da Wu Sangui, un generale Ming che si era ammutinato per passare al servizio dei nuovi signori manciù.
Passò con i manciù, a Pechino, il gesuita tedesco Adam Schall, che strinse amicizia con l'imperatore Qing Shunzhi, ricevendone le onorificenze che spettavano ad un mandarino di massimo grado. «Indossando gli abiti dei mandarini della nuova dinastia», scrive Po-chia Hsia, «Schall fu in grado di garantire la sopravvivenza e la prosperità della missione gesuitica». Nonostante un breve periodo di persecuzioni dopo la morte del sovrano amico, la missione cattolica riprese a prosperare sotto l'imperatore Kangxi, che regnò dal 1662 al 1723. «Un secolo dopo che Ricci si era stabilito a Pechino, il fondatore della missione cattolica avrebbe avuto tutte le ragioni per gioire nella sua tomba: nel 1701 la Cina aveva circa duecentomila convertiti e 153 ecclesiastici».
Lo stesso imperatore Kangxi si mostrò particolarmente cordiale e disponibile nei confronti dei suoi consulenti gesuiti: imparò da loro il latino, la matematica e la scienza occidentale; si fece somministrare il chinino che gli consentì di guarire dal vaiolo, malattia che aveva ucciso suo padre. Ma i missionari continuavano a litigare tra loro su Confucio e nel 1705 l'imperatore, spazientito, vietò ai suoi sudditi di praticare il cristianesimo. Tutti i missionari occidentali che desideravano restare in Cina dovevano giurare sui «metodi di padre Ricci» e promettere che non sarebbero mai più tornati in Europa.
Domenicani, agostiniani e preti della Società per le missioni estere di Parigi abbandonarono in massa l'impero, i francescani si divisero, ma gran parte di essi rientrò, mentre i gesuiti, a eccezione di alcuni portoghesi, si piegarono al giuramento imposto da Kangxi. Per otto anni l'editto del 1705 non fu quasi mai applicato. Poi venne l'epoca delle persecuzioni. Persecuzioni quasi incruente, però, se messe a paragone con quelle perpetrate nel Giappone dei Tokugawa. Quand'ecco che si ebbe un nuovo trauma, stavolta proveniente da Roma. Nel 1773, per decisione di Clemente XIV, indirizzato in tal senso dalle corti borboniche, fu decretata la fine della Compagnia di Gesù (che sarebbe stata riportata in vita da Pio VII nel 1814, 41 anni dopo).
Appena la Compagnia rinacque, riferisce Po-chia Hsia, i nuovi missionari gesuiti ripresero i contatti con l'impero Qing, che però era in condizioni ben più deboli, tant'è che fu sconfitto dagli inglesi nella prima guerra dell'oppio (1839-1842) e successivamente dagli attacchi congiunti anglofrancesi nella seconda guerra dell'oppio (1858-1860). A quel punto il regime Qing fu «costretto» a spalancare le porte ai diplomatici stranieri e ai missionari cristiani. E fu grazie alla protezione diplomatica e militare della Francia che i gesuiti e altri missionari cattolici da quel momento in poi si recarono in Cina con lo status di diplomatici e con nuovi poteri. Un capovolgimento della lezione di Ricci. Agli occhi dei cinesi «i nuovi arrivati apparvero come rappresentanti del potere occidentale e furono considerati una propaggine dell'aggressione europea». Tanto più che i gesuiti intentarono decine di processi allo scopo di reclamare le proprietà che erano state loro confiscate più di un secolo prima. I missionari proteggevano i convertiti cristiani ovunque, «intervenendo nelle dispute civili o nelle liti sulle proprietà, facendo appello ai magistrati locali, talvolta ai propri consoli, e con l'aumentare della loro influenza cresceva l'odio dei cinesi verso tutto ciò che era cristiano e occidentale».
La sintesi tra confucianesimo e cristianesimo era ormai una cosa lontana, e l'armonia tra Oriente e Occidente il ricordo di qualcosa di antico. La stragrande maggioranza delle élite confuciane della tarda epoca Qing «era fermamente anticristiana, per non dire assolutamente xenofoba». Si moltiplicavano voci e leggende che spesso traevano origine da «fantasie paranoiche»: «Missionari che pagavano per le conversioni, bambini uccisi dopo i battesimi, estrazione degli occhi dei viventi per ricavarne medicine». Po-chia Hsia sostiene che alcune dicerie potevano avere un fondo di verità: ad esempio che i religiosi agissero come spie per i governi stranieri, che screditassero la cultura cinese descrivendola come superstiziosa e che, più in generale, non esitassero a fare appello ai loro diplomatici e ai loro soldati per proteggersi e fare pressione sul popolo cinese. Di lì alle «ritorsioni» il passo fu breve.
Nel 1870 a Tianjin una folla uccise il console francese e con lui una dozzina di missionari e convertiti. Nel 1899 nelle province di Shangdong e Hebei si ebbe un forte movimento anticristiano. Poi nel 1900 fu la volta dei Boxer, un movimento regionale che individuò nei convertiti cristiani e nei missionari stranieri i nemici da abbattere. Con la connivenza della corte, i Boxer entrarono a Pechino e misero sotto assedio le legazioni straniere, presso cui avevano trovato rifugio molti missionari occidentali e cinesi convertiti. Fu necessaria una missione militare di otto Paesi per togliere l'assedio e domare i Boxer, che nel frattempo avevano ucciso centinaia di cristiani, violato cimiteri come quello di Zhalan dove 88 tombe erano state scoperchiate e i resti dei corpi di fedeli cattolici erano stati dati alle fiamme.
Dovevano trascorrere decenni prima che il capitolo potesse essere riaperto. Nel Novecento si sono avuti importanti studi su Ricci e sulla sua eredità. In particolare alla fine del secolo. Un libro di Jacques Gernet, Cina e cristianesimo (Marietti), ha sollevato dubbi sulla reale integrazione tra le strutture del pensiero dei gesuiti e quelle degli intellettuali cinesi. Jonathan Spence, in Il palazzo della memoria di Matteo Ricci (Adelphi), ha proposto una raffinata analisi del rapporto tra il grande gesuita e la Controriforma. Ma Ronnie Po-chia Hsia si rifà utilmente ad alcune riflessioni di Sun Shangyang, contenute in un importante saggio del 1994 (inedito in Italia) sul rapporto tra cristianesimo e confucianesimo, per approfondire l'«occasione persa» di uno scambio culturale pacifico con l'Occidente che avrebbe potuto cambiare la storia della Cina, dell'Asia. E probabilmente dell'intera umanità.

Corriere 26.7.12
Il patto segreto tra Chiesa e Duce
Per difendere l'Azione cattolica, Pio XI subì la svolta razzista
di Francesco Margiotta Broglio

Il 1° luglio il Museo Yad Vashem di Gerusalemme ha annunciato che il pannello «Pio XII e l'Olocausto» non solo ha cambiato il titolo («Il Vaticano e l'Olocausto»), ma è stato modificato nei suoi contenuti negativi per tener conto delle più recenti acquisizioni della ricerca storica, anche se il controverso tema, in attesa della disponibilità di «tutto il materiale rilevante», resta «aperto a ulteriori indagini». «L'Osservatore Romano» ha parlato di «Pio XII restituito alla storia» e ha preso atto che «finalmente si parla di storia, di documenti, di nuove acquisizioni e si dà conto di un dibattito aperto», pur registrando i dissensi. L'«Avvenire» ha sottolineato che non si tratta di vero «ribaltamento di giudizio», ma di «contestualizzazione più problematica».
È necessario osservare che la ricca storiografia ha affrontato l'argomento, in genere, isolando il Pacelli pontefice dal Pacelli segretario di Stato di Pio XI per quasi tutti gli anni Trenta. Come se fosse possibile studiare l'operato del Papa senza tenere conto di quello, immediatamente precedente, del «capo» del governo vaticano (primo e autorevole, anche se non sempre ascoltato, consigliere di papa Ratti), oggi agevolmente analizzabile grazie all'apertura fino al 1939 degli archivi della Santa Sede. Inizia, ora, a colmare questa lacuna un innovativo contributo monografico (circa 70 pagine) di Giorgio Fabre — di cui è imminente la pubblicazione nel fascicolo 76 dei «Quaderni di Storia» diretti da Luciano Canfora — il quale ha utilizzato non solo la documentazione di quegli archivi (soprattutto quella della sezione «Affari straordinari» della Segreteria di Stato), ma anche quella degli archivi romani della Compagnia di Gesù e, in particolare, le inedite «carte» del padre Tacchi Venturi, ufficioso, ma efficace e diretto tramite tra Pio XI e Mussolini. L'argomento è l'accordo raggiunto tra il gesuita e Mussolini il 16 agosto 1938, «al fine di ristabilire la buona armonia», su due questioni che avevano messo in profonda crisi i rapporti tra la Santa Sede e il regime fin dall'autunno dell'anno precedente: l'incompatibilità tra iscrizione al Pnf e militanza nell'Azione cattolica — esclusa dagli «Accordi» in materia del 1931 negoziati anch'essi da Tacchi Venturi, sui quali getta nuova luce un recentissimo e rilevante scritto di Giovanni Coco apparso nello «Archivum historiae pontificiae» — e la dura reazione iniziale di papa Ratti alla nuova politica razzista del governo. Un accordo parzialmente noto, ma fuori contesto, per cui, ora che Fabre lo ha ricostruito e collegato alla dispersa documentazione vaticana, appare chiaro che ne era risultato distorto il significato. Esso venne preparato da almeno due colloqui e da due documenti ispirati dal Papa e rappresentò un «punto intermedio, ma non certo definitivo di pacificazione» e consistette «in uno scambio preciso e formale tra Chiesa e fascismo in base al quale quest'ultimo avrebbe rispettato l'Azione cattolica e la Chiesa sarebbe stata zitta sul razzismo e gli ebrei. La Chiesa avrebbe accettato il silenzio, ricevendo in cambio la salvaguardia della sua organizzazione laica, la pupilla di Pio XI».
L'autore ricostruisce per la prima volta nel loro complesso le vicende, talvolta drammatiche, che portarono a quella intesa e quelle «tutt'altro che lineari che seguirono», mettendo in evidenza come al primo punto vi fosse il problema «razzismo ed ebraismo», sul quale il Duce assicurava, con qualche ironia, che gli «onesti criteri discriminatori» non sarebbero stati peggiori di quelli adottati «per secoli e secoli dai Papi» (senza però ghetti e contrassegni) e auspicava vivamente che la stampa e le autorità cattoliche si astenessero «dal trattare in pubblico» l'argomento sul quale Pio XI e Mussolini avrebbero potuto intendersi «direttamente in via privata» (in un appunto a lapis il gesuita annota: «Smettere di predicare contro il razzismo»).
Al secondo punto il Duce dichiarava di voler mantenere «intatto e nel suo pieno vigore» l'accordo del 2 settembre 1931 e assicurava che le tessere del Pnf sarebbero state restituite agli appartenenti all'Azione cattolica iscritti al partito, consentendo loro di non perdere gli impieghi civili. In sintesi «Mussolini legava le mani alla Chiesa… e liberava le sue; in cambio avrebbe lasciato tranquilla l'Azione cattolica. Questo l'accordo "felicemente conchiuso" da Tacchi Venturi».
Da un appunto dell'allora monsignor Montini appare, però, che «Sua Santità è rimasta urtata dal punto sugli ebrei sotto il governo pontificio» e che «padre Tacchi spera che il Santo Padre si calmerà». Certo in un intervento del 21 agosto il Pontefice si riferirà soltanto all'«esagerato nazionalismo» e comunque Mussolini continuerà a «tenere il Papa sulla corda», il quale, però, ricevendo nel settembre i dirigenti della radio belga, dichiarerà: «Nous sommes spirituellement des semites».
Lapidaria l'annotazione di Goebbels in proposito: «Il fascismo oppone resistenza alla Chiesa e difende con grande slancio il suo punto di vista sulla razza. Il Papa non ha proprio più niente da ridere».

Corriere 28.7.12
Amore, un demone ambiguo
Passione, dannazione, vanità: da Paolo e Francesca a Narciso
di Aldo Grasso

«On ne badine pas avec l'amour», dicono i francesi: con l'amore non si scherza. Il demone dell'amore, infatti, non è solo causa di tormenti personali, molteplici e continui, è anche, in assoluto, il più grande ispiratore di poeti, scrittori, parolieri, sceneggiatori, persino sociologi. Tutti scrivono sull'amore, anche se, come ci ricorda Shakespeare, «un vero amore non sa parlare». Il fatto è che non c'è storia che non contenga una storia d'amore: esplicita, mascherata, dirompente, sottotraccia. E la domanda è sempre la stessa, quella posta una volta per tutte da W.H. Auden: «O tell me the truth about love», la verità, vi prego sull'amore.
Stendhal, nel suo fondamentale De l'amour, aveva individuato quattro tipi di amore: a) l'amore-passione, cioè l'amore esemplificato in letteratura da vari personaggi, da Eloisa e Abelardo al Werther di Goethe; b) l'amore-capriccio: «Mentre l'amore-passione ci travolge contro tutti i nostri interessi, l'amore-capriccio sa sempre conformarvisi». Nell'amore-capriccio, ci informa Stendhal, la donna sceglie un amante tenendo conto, più che dell'opinione che ha di lui, di quella delle altre donne; c) l'amore fisico, su cui c'è poco da spiegare: «A caccia, si trova una bella contadina fresca che fugge nel bosco. Tutti conoscono l'amore fondato su questo tipo di piaceri»; d) l'amore-vanità; in questo caso la persona amata è solo uno strumento per accrescere l'autostima, come si dice oggi.
André Breton ne L'amour fou («L'amore pazzo») esaspera l'incanto del trasporto amoroso e l'amore-passione di Stendhal diventa, nell'opzione surrealista, il motore che consuma tutti i cicli vitali, l'immane sorpresa «nel groviglio del naturale e del sovrannaturale». Dalla Bibbia ai Simpson, ognuno ha la sua idea sull'amore, ognuno racconta i suoi amori. E allora, ancora una volta, la verità, vi prego, sull'amore.
Ci prova ora Maria Bettetini, docente di Estetica, grande interprete di Agostino, con un'articolata descrizione dell'amore: «Un demone buono, che colora di euforia la vita quotidiana; meno gentile, quando sconvolge il sereno procedere dei giorni; forse malvagio, quando distrugge le sue vittime». Quattro modi dell'amore (Laterza, pp. 144, 14) è un lungo e sorprendente itinerario, fra secoli e culture, che porta inevitabilmente il lettore a domandarsi da quale espressione dell'amore si sia lasciato, o abbia desiderato lasciarsi, imprigionare.
Anche Maria Bettetini analizza quattro tipologie di amore: l'amore per un amico, l'amore della passione, l'amore estremo, i falsi amori. La forma stessa della descrizione diventa un'altra forma di amore, quello per la pagina scritta, per le descrizioni e le riflessioni che nel corso degli anni si sono affastellate sul tema.
La struttura dei quattro grandi capitoli è la seguente. Il primo spunto è un racconto così esemplare da assumere la forma di apologo: Eurialo e Niso per l'amicizia; Francesca da Rimini per la passione; La donna di Gilles di Madeleine Bourdouxhe, storia di un ménage à trois, ma più ancora di un amore degenerato e, infine, il mito di Narciso come esempio di falso amore (il mito di Narciso è spesso letto come un banale sermoncino sulla vanità. Narciso non è ucciso dal languore per un amore elegante e impossibile ma dal proprio doppio travestito da Narciso: il suo dramma è quello di non riconoscersi, come spesso accade a tutti). Il secondo movimento ha un andamento filologico, nel tentativo di ridare forza a termini usurati dalla quotidianità. La terza parte prende in esame la trattazione che di quella particolare forma di amore hanno fatto filosofi, poeti, grandi pensatori, studiosi vari.
Prendiamo il capitolo sulla passione. Si parte dai celebri versi di Dante su Paolo e Francesca (Inferno, V, 121-136): «Quando leggemmo il disiato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante». La storia la conosciamo: due cognati uccisi, dal marito di lei e fratello di lui, perché sorpresi insieme in flagranza di adulterio.
Non solo l'amore teorizzato dal Dolcestilnovo porta alla morte, porta anche alla condanna, all'inferno. «Le pagine del quinto canto dell'Inferno dantesco — scrive Maria Bettetini — contengono parole ineguagliate per dire il cuore di ciò che in italiano diciamo passione, in latino passio, in greco pathos. L'essere presi e posseduti per sempre, il patire volentieri una condizione di prigionia». E qui parte una lunga e puntigliosa ricognizione attraverso filosofi e scrittori sulla nozione di passione, una cavalcata dotta ma sempre piacevole e ricca di sorprese. Senza mai dimenticare, come ci ricorda Emily Dickinson, «che l'amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore».

l’Unità 29.7.12
Giocare a «fare» Dio e creare la vita
Esiste già il marchio: si chiama biologia sintetica
di Pietro Greco
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Corriere 31.7.12
Eco che amò Narciso (e lui solo se stesso)
La ninfa stregata dalla bellezza di lui Il rifiuto, la fuga e la tragica fine
di Armando Torno

Non sempre la bellezza favorisce l'amore, anzi a volte si trasforma in un impedimento. Forse perché ha un'altra missione da svolgere tra le vicende umane, come intuì John Keats nei celebri versi dell'Ode su un'urna greca: «"La bellezza è verità, la verità bellezza" — questo è tutto/ ciò che sapete sulla Terra, e tutto ciò che vi occorre sapere». Il mito greco di Narciso, figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope, giunto a noi in più versioni e a volte con l'indicazione di altri genitori, sembra quasi un commento alla regola ricordata. Ovvero che la bellezza, pur sollecitando i desideri, sovente allontana i corpi.
La vicenda di Narciso, seppure a grandi linee, è nota. Ci riferiremo alla versione di Ovidio, terzo libro delle Metamorfosi (traduzione di Guido Paduano, Einaudi 2000). Appena nato, ricorda il poeta latino, fu «subito oggetto d'amore» e giunto a sedici anni «sembrava ugualmente un uomo o un ragazzo». Era talmente bello che lo desideravano entrambi i sessi. Fascinoso, inseguito, sfuggente, Ovidio coglie in lui una «dura superbia». La usò come una corazza e per questo «non arrivò a toccarlo nessun giovane e nessuna ragazza».
Un giorno, mentre era a caccia di cervi, incontrò la ninfa Eco, una creatura singolare. In accordo con Zeus, re e padre degli dei, ella teneva occupata Era, la Giunone dei latini, sovrana dell'Olimpo. Le parlava senza sosta, in modo da consentire al grande dio di intrattenersi con altre ninfe. Ma ben presto venne scoperta. E allora la povera Eco subì dalla dea una condanna. Le parole, riportate da Ovidio, non lasciano attenuanti: «Farai poco uso della lingua che m'ha ingannata, e avrai voce brevissima». A quel punto la ninfa non riesce a fare altro: «Raddoppia le ultime parole e ripete solo ciò che ha sentito». Un giorno incontra Narciso.
Se ne innamora. Subito. Ovidio scrive: «E più lo segue, più la brucia da presso la fiamma»; cerca di accostarsi a lui «con dolci parole». Ma la sua natura glielo impedisce. Narciso grida: «C'è qualcuno presente?», Eco può dire soltanto: «Presente». Ovidio aggiunge un altro urlo: «Vieni!», ma lei ripete le ultime sillabe. La scena continua sino a quando Narciso, ingannato dal ritorno di voce, si lascia fuggire un invito fatale: «Riuniamoci»; lei ripete: «Uniamoci» (in latino il gioco è fascinoso: «Huc coeamus» diventa «Coeamus»). La ninfa esce dalla selva e cerca di gettare le braccia al collo del bellissimo giovane. Ma lui fugge e le intima di tenere le mani a posto. Il distacco è accompagnato da frigide parole: «Piuttosto morire che darti la mia persona». Lei può rispondere soltanto: «Darti la mia persona».
La fanciulla se ne andò. Non le restava altro che morire. Ovidio ci ricorda che di lei rimase soltanto la voce. La dea Nemesi decise allora di punire Narciso. Lo fece imbattere in uno specchio d'acqua in modo che potesse scorgere almeno i tratti della sua bellezza. Il poeta evoca la scena: «Non sa cosa vede, ma per quello che vede arde, e lo stesso errore che ingannò gli occhi li eccita». Narciso ammette: «Brucio d'amore per me stesso», ma non può far altro che soffrire e dialogare con la sua immagine, inafferrabile, sino a straziarsi. Giunge a confessare: «Non mi è dura la morte, giacché con essa finisce il dolore». E la sospirata fine arriva: dopo un dialogo surreale con i propri lineamenti riflessi, emette l'ultimo grido, guardando nell'acqua se stesso.
Il lamento di Eco prosegue. Nei boschi, sui monti, ma anche in un luogo inatteso. È un ripetersi eterno che piange quell'amore che vide e che mai fu. Narciso, al di là della testimonianza di Ovidio, farà scrivere Pausania e poi tanti altri; qualcosa affiora anche ai nostri giorni, come testimoniano i papiri di Ossirinco che nel 2004 rivelarono un racconto forse di Partenio. Di lui si occuperà la pittura, da Caravaggio a Poussin, da Turner a Dalì; la letteratura lo inseguì senza requie — divertitevi, tra i molti, con Gide, Wilde e Hesse — e Freud dovette occuparsi di «narcisismo». Anche la musica lo raccontò. Ma quest'arte preferì meditare più a lungo Eco che non il meraviglioso giovane. Perché i riflessi del suo amore infelice turbano ancora le orchestre.

Corriere 1.8.12
Un fantasma si aggira per l'Europa Ritorna Karl Marx (il filosofo)
di Giuseppe Bedeschi

L' interesse per il pensiero di Marx cresce continuamente. Vengono riproposte sue opere, che da gran tempo non erano più disponibili sul mercato librario (l'anno scorso è uscita, per i tipi di Bompiani, una bella edizione della Ideologia tedesca, con un acuto saggio introduttivo di Diego Fusaro; su questa edizione si è svolto di recente alla Luiss di Roma un convegno). Escono in gran copia saggi e articoli sull'autore del Capitale. Molto di questo revival è dovuto alla grave crisi economica che si è abbattuta sull'America e sull'Europa. La convinzione marxiana che il capitalismo sia un sistema intimamente irrazionale, minato da contraddizioni insanabili, sicché esso soffre periodicamente di crisi altamente distruttive, appare a parecchi pienamente confermata. Ma, più in generale, c'è un rinnovato interesse per la visione che Marx ebbe dell'uomo e della storia. Su l'Unità del 22 luglio, una intera pagina, con un articolo di Luca Baccelli («Studiare Marx economista, non dimenticare il filosofo»), richiama la complessità e l'attualità della concezione marxiana del lavoro, contro le deformazioni che ne avrebbero fatto Hannah Arendt e Juergen Habermas. In effetti, proprio nella Ideologia tedesca c'è, a proposito del lavoro, una riflessione del più alto interesse. Per intenderla, bisogna rifarsi alla critica che l'Autore rivolse al filosofo Ludwig Feuerbach. Il quale era per Marx un gigante del pensiero (nei giovanili Manoscritti economico-filosofici del 1844 egli affermò che le opere di Feuerbach erano le sole «dopo la Fenomenologia e la Logica di Hegel, nelle quali è contenuta un'effettiva rivoluzione teoretica»). Il grande merito di Feuerbach era per Marx quello di aver visto — contro Hegel, per il quale l'uomo era un puro ente spirituale, pura «autocoscienza» — che l'uomo è essenzialmente un ente naturale, prodotto dalla natura e iscritto in essa, e quindi condizionato da bisogni che deve soddisfare ogni giorno. Senonché, detto ciò, Feuerbach era rimasto avviluppato in un grosso limite che non era riuscito a superare. Infatti, secondo Marx, egli non aveva visto che il rapporto uomo-natura, quale si realizza nell'industria, è al tempo stesso un rapporto dell'uomo con gli altri uomini nella produzione reale della vita, un rapporto materiale-sociale, che modifica profondamente, riplasma e dunque «produce» la natura. Feuerbach non aveva visto che il mondo sensibile che lo circonda è «non una cosa data immediatamente dall'eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell'industria e delle condizioni sociali». Feuerbach aveva insistito sì sulla scienza della natura, ma non aveva visto che anche la scienza della natura è strettamente condizionata dall'industria e dal commercio, dall'attività pratica degli uomini, la quale fornisce alla scienza sia gli scopi che i materiali. «È tanto vero che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, questa produzione, è la base dell'intero mondo sensibile, quale ora esiste, che se fosse interrotta anche solo per un anno Feuerbach non solo troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma gli verrebbe ben presto a mancare l'intero mondo umano, la sua stessa facoltà intuitiva, e anzi la sua stessa esistenza». Quello che mancava a Feuerbach, insomma, come ai filosofi idealisti, era, secondo Marx, il concetto di produzione, nel suo doppio e simultaneo rapporto uomo-natura e uomo-uomo. Mentre gli idealisti non vedevano che il rapporto uomo-uomo è anche un rapporto uomo-natura nella produzione materiale della vita, e quindi riducevano la storia a divenire puramente coscienziale o ideale; Feuerbach, a sua volta, non vedeva che il rapporto uomo-natura è anche un rapporto uomo-uomo nella produzione materiale della vita. Perciò egli restava fermo all'astrazione «uomo» come «oggetto sensibile», invece di concepirlo come attività che si esplica nel lavoro, e quindi come il complesso dei rapporti sociali. In questo modo egli non si apriva nemmeno alla storia, e di conseguenza non riusciva a comprendere in modo adeguato le ideologie (filosofia, politica, diritto ecc.) che sorgono storicamente, e che hanno la loro origine nella produzione materiale della vita. La concezione che Marx ha delle ideologie è certo assai importante: è una concezione che fa epoca nel pensiero occidentale. Oggi, anche chi non è marxista non si sognerebbe mai di studiare la cultura di un periodo storico, senza studiare le condizioni materiali e sociali della vita di quel periodo, lo sviluppo della produzione e del commercio, della scienza e della tecnologia. Il che significa che, dopo Marx, non si può ragionare come si faceva prima di Marx. Ma c'è un altro aspetto di grande rilevanza nella critica marxiana a Feuerbach. Per Marx la natura è, nel mondo moderno, un prodotto del lavoro umano, dell'industria umana. Dunque, quando gli uomini, in una società unificata, prenderanno completamente sotto il loro controllo le condizioni del loro lavoro, essi saranno i signori della natura. Si tratta, con ogni evidenza, di una concezione antropocentrica, che vede nella storia un infinito, ininterrotto progresso. C'è però, in questa concezione (come osservò Freud) una sottovalutazione degli istinti, delle pulsioni distruttive sempre presenti nell'animo umano, che rendono il nostro futuro incerto e precario. E dopo le tragedie del Novecento (due guerre mondiali, totalitarismi crudeli e disumani, stragi e genocidi inauditi) chi potrà abbracciare un incondizionato ottimismo storico?

l’Unità 4.8.12 è un Sabato, il quotidiano esce insieme a LEFT
Come sono diventato cristiano
«La trascendenza è l’antidoto al pensiero unico»
di Pietro Barcellona
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l’Unità 9.8.12
Le buone idee della scuola di Bari
Quel «comunismo» è valido ancora oggi
Anni sessanta Lo scambio di lettere tra Biagio
De Giovanni e l’allievo Marcello Montanari raccolto in un libro-confessione sull’incontro scontro tra filosofia e politica
di Pasquale Serra
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Corriere 10.8.12
Camus e l'Algeria: la Francia litiga ancora. Dopo 50 anni
dal nostro corrispondente Stefano Montefiori

PARIGI — Il 7 novembre 2013 sarà il centesimo compleanno di Albert Camus, e i preparativi sono in corso già da mesi per le celebrazioni che avranno il loro momento più importante in una grande mostra prevista a Aix-en-Provence. Ma un'esposizione sull'autore dello Straniero significa cristallizzarne la figura, o quanto meno proporne un angolo di visione, e questo in Francia ancora non è possibile senza polemiche: l'esposizione, che fa parte degli eventi di «Marsiglia capitale della Cultura 2013», ha accusato molti ritardi, poi è stata annullata, infine viene ora riprogrammata, ma con un altro curatore. Via lo storico esperto dell'Algeria Benjamin Stora, al suo posto il filosofo Michel Onfray, autore mesi fa di un ponderoso saggio biografico su Albert Camus.
«Censura», dice Stora. «Troppi ritardi dello storico», minimizza Catherine Camus, la figlia dello scrittore che gestisce i suoi diritti e che si trova inevitabilmente al centro dell'organizzazione. «Nessun commento su quanto è stato già fatto da Stora», dice un imbarazzato Onfray, che avrebbe voluto avvertire il predecessore di persona, dopo l'estate, ma è stato bruciato sul tempo dalla fuga di notizie.
Su cosa si fondano le proteste di Benjamin Stora, che allude a una rimozione politica? Coerentemente con la sua opera di storico, il suo progetto puntava sulle prese di posizione più difficili, controverse e coraggiose di Camus: la sua opposizione alla guerra d'Algeria, la denuncia della tortura e la lotta contro la pena di morte comminata a centinaia di indipendentisti.
Aspetti che cinquant'anni dopo la fine della guerra dovrebbero non suscitare più controversie, ma non è così, soprattutto nel Sud della Francia e in particolare a Aix, dove è fortissima la comunità dei pieds-noirs, i rifugiati dell'Algeria francese. «Non sono cieco — ha detto Stora a "Libération" —, ho letto le frasi del sindaco donna di Aix, Maryse Joissains-Masini, sull'Algeria francese e conosco il peso dei pieds-noirs. Si nascondono dietro considerazioni tecniche, ma la verità è che il comitato organizzatore di Marsiglia 2013 non ha avuto il coraggio di sostenermi».
Stora ha la reputazione, pessima da queste parti, di avere simpatizzato per il Fln algerino. E di recente ha scritto un importante libro di denuncia sulla figura di François Mitterrand (ministro dell'Interno e della Giustizia ai tempi dell'Algeria francese), sottolineando come il presidente — passato alla storia come colui che abolì la ghigliottina appena arrivato all'Eliseo — da Guardasigilli rifiutò sistematicamente la grazia ai condannati a morte algerini.
Il nuovo curatore della mostra, Michel Onfray, ha accettato l'incarico a condizione che l'esposizione si trasformi poi in un museo permanente. Puntando un po' meno sull'Algeria, cercherà di dimostrare che — nonostante l'opinione di Jean-Paul Sartre — «Camus non è un filosofo da liceali».

l’Unità 12.8.12
Pietro Ingrao a Venezia Con un film-intervista di Filippo Vendemmiati
Il regista: «È un ragazzo che non ha mai smesso di sognare
E i suoi suggerimenti non sono stati ascoltati»
di Valerio Rosa
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Repubblica 13.8.12
Perché i fatti restano finché c’è un pensiero
Il dibattito sul Nuovo Realismo/ Serve che ci sia una memoria per ricordarli
di Eugenio Scalfari

Ringrazio Maurizio Ferraris per la sua cortese risposta ad un passaggio del mio articolo di venerdì scorso, quello in cui sottolineavo l’incomunicabilità della «cosa in sé» kantiana la quale è conoscibile soltanto attraverso le interpretazioni soggettive di chi la vede dal di fuori non riuscendo e non potendo penetrarla al di dentro. Esiste, almeno in teoria, un’alternativa a quell’insuperabile impossibilità? Esiste, sì, e il primo a formularla con chiarezza (può sembrar paradossale) è stato Agostino d’Ippona: bisogna spogliarsi del proprio io per entrare nella cosa in sé, vuotare la propria testa d’ogni memoria e d’ogni traccia di soggettività per poter godere della beatitudine di contemplare la luce accecante di Dio, che per Agostino è ovviamente il culmine della cosa in sé. Nietzsche nei suoi ultimi scritti sostenne qualche cosa di molto simile quando precisò che il suo superuomo non è affatto un «super» (come pure lui stesso aveva ipotizzato in altri scritti sulla volontà di potenza) ma un «oltre-uomo» che ha smantellato il suo io per poter amare gli altri senza invaderli. Quanto ad Hegel l’essenza del suo pensiero, come ho ricordato, si basa sull’identità tra il vero e il reale. Tutto ciò che è reale è la verità. Il «dover essere» non esiste fin quando si trasforma in realtà attuale e attuata; solo a quel punto il dover essere diventa essere e quindi vero. Quest’architettura è la base della filosofia hegeliana, che sfugge volutamente alla teoria kantiana. Sfugge perché parte dall’ipotesi dello Spirito, una trascendenza laica, che opera attraverso la triade della dialettica dove l’antitesi serve soltanto da stimolo alla sintesi, fino a quando si arriverà al culmine d’una sintesi suprema e di uno Spirito assoluto che tutto sa e tutto governa e per il quale ovviamente non esiste alcuna cosa in sé visto che lo Spirito è dovunque, trascendenza immanente e quasi spinoziana. Ferraris descrive la cosa in sé come l’aspetto «resistente» entro certi limiti negativo, ma insuperabilmente reale. È una sua rispettabile interpretazione del pensiero di Kant e di Hegel e anche di Nietzsche. Mi permetto di ricordare – ma Ferraris sicuramente lo sa – che Heidegger scrisse un libro fondamentale su Nietzsche nel tentativo di interpretarlo a suo modo attraverso le categorie dell’Essere e del Tempo che erano state la base del pensiero heideggeriano. Dopo quell’immane lavoro, il filosofo tedesco si rese conto che la sua interpretazione del pensiero nietzschiano ne aveva trascurato molti aspetti e rendeva quindi manchevole il suo lavoro. In alcune lettere private ma poi rese pubbliche confessò a persone a lui profondamente legate d’esser caduto in uno stato di profonda depressione che gli impediva qualsiasi altro lavoro. Ma tornando a Ferraris, la sua è un’interessante interpretazione come ho già detto del pensiero di Kant, di Hegel, di Nietzsche, dell’«umano» e del suo ruolo. Così come lo è la mia che ovviamente dalla sua diverge. I fatti restano, egli scrive. Lo dico anch’io. I fatti, gli oggetti, le persone. Le persone muoiono, gli oggetti si consumano e infine scompaiono anch’essi. I fatti restano e neanche Dio può cancellarli secondo la stessa dottrina della Chiesa, per la semplice ragione che è la volontà di Dio ad aver voluto che accadessero. Resta un punto: i fatti restano fin quando esisterà un pensiero e una memoria capace di ricordarli e anche il pensare Dio. Quando la nostra specie scomparirà si aprirà un altro scenario che non sta a noi immaginare e che durerà fin quando non scomparirà anche la Terra e il Sole e la Luna. Sui buchi neri si sa ancora troppo poco e comunque si procede a studiarli sempre sulla base di interpretazioni perché è quello il solo modo che abbiamo per costruire le nostre verità relative.

Corriere 14.8.12
Lou Salomé, la russa che si negò al superuomo
Il grande amore (fallito) di Nietzsche che ispirò «Così parlò Zarathustra»
di Armando Torno

Friedrich Nietzsche, uno dei grandi filosofi dell'umanità, con sentimenti e amicizie fu intemperante. Sossio Giametta, traduttore principe delle sue opere (lavorò con Giorgio Colli e Mazzino Montinari), ci ha confidato: «Era troppo affamato d'amore e spaventava le donne». Già, le donne. Se si dovesse indicarne una tra quelle che ebbe la ventura di incontrare, la scelta, inevitabilmente, cadrebbe su Lou Andreas Salomé. Per le altre è conveniente soprassedere. Friedrich soffriva di mal di testa, dolori reumatici e di stomaco già a 17 anni; era disinteressato allo sport, alla politica, alla metafisica. In occasione dell'uscita della Nascita della tragedia — per offrire un esempio — riceve una lettera da tale Rosalie Nielsen, alla quale fissa un appuntamento in un hotel di Friburgo. Dopo essere entrato nella camera, si accorge avvicinandosi — Nietzsche era terribilmente miope — che si tratta di «una donna appassita, di una bruttezza ripugnante, vestita a sghimbescio, sudicia». Gli bastano pochi secondi per darsela a gambe urlando: «Mostro, mi hai ingannato!». Lei continuerà a molestarlo, ma a lui piacevano «giovani, belle, alte, bionde». Peccato che tale genere avesse interessi diversi dai suoi e non ricambiasse i sospiri del sommo pensatore.
La Salomé ebbe con il filosofo un rapporto vuoto e tempestoso. Nietzsche la voleva sposare, ma lei era un'eterna delusa e maritarsi era l'ultima cosa a cui pensava (quando farà il gran passo con l'orientalista Carl Andreas, il consorte, per un accordo, non poteva toccarla). Nietzsche pensò a lei come alla madre del superuomo, ma tra i due — sottolinea Giametta — non ci fu sesso. Lou portò eternamente le ferite del rapporto con il pastore Hendrik Gillot, che predicava in una chiesetta sulla Prospettiva Nevskij, a San Pietroburgo, dinanzi allo stupendo palazzo barocco Stroganov. Questo amore rovinò gli altri: lo sconteranno, oltre Nietzsche, anche Rilke e Freud.
Fu Malwida von Maysenbug, amica del filosofo oltre che di Wagner, ospite d'onore fissa a Bayreuth, che invitò la Salomé a Roma per curare la tubercolosi. Con Paul Ree, pensatore a sua volta e uno dei migliori amici di Nietzsche (comunque criticato nella prefazione alla Genealogia della morale), scrissero a Friedrich per dar vita a un incontro. E questo avvenne nella Basilica di San Pietro, dove Paul si sedette in un confessionale a scribacchiare; Nietzsche rimase estasiato dalla donna. Ben presto l'amicizia diventa un rapporto; lei si fida più di Paul Ree, giacché l'altro «ha brutte intenzioni» (come nota Giametta). Respinto sia come marito che come amante, Nietzsche rinforza gli assalti ma Lou lo vorrebbe solo come amico. I tre progettano un soggiorno a Parigi per dimostrare scientificamente la teoria dell'eterno ritorno, con Malwida. Quest'ultima si sfila.
La sorella di Nietzsche, Elisabeth, accusa Lou di sfruttare il fratello. Con questa donna egli passa anche dei giorni di vacanza; anzi, una volta egli lascia Bayreuth per raggiungerla. Vivono isolati un certo tempo, seppure in appartamenti separati. Una lettera di lei alla sorella del filosofo (riportata anche dalla biografia di Heinz F. Peters, Lou Andreas Salomé. Mia sorella, mia sposa, tradotta da Odoya) chiarisce il rapporto: «Non metterti in testa che io mi interessi di tuo fratello o sia innamorata di lui. Potrei passare tutta la notte chiusa con lui in una stanza senza provare la minima tentazione. È stato lui il primo a macchiare i nostri progetti di studio con le sue basse intenzioni. Ha cominciato a parlare di amicizia soltanto quando ha capito che non avrebbe potuto avere altro da me».
Il filosofo, anche se andò in bianco, ottenne benefici. Come confesserà alla sorella in un'epistola, «senza lei non avrei mai scritto lo Zarathustra». Lou, insomma, per dirla con Giametta, «lo aiuta a terminare quella marcia aforistica di taglio illuministico fatta di libri quali Umano troppo umano, Aurora, La Gaia Scienza e gli offre le basi per la religione laica che ha le sue fondamenta in Zarathustra». Nell'opera principe, comunque, Nietzsche bolla il suo grande amore senza riportarne il nome: «Il parassita più schifoso è la persona che vuole essere amata senza amare».

La Stampa 14.8.12
La versione di Gabriele “In missione per conto dello Spirito Santo”
Lo psichiatra: suggestionabile e pericoloso
di Gia. Gal.

Per lo psichiatra l’ex maggiordomo papale è un «soggetto suggestionabile e socialmente pericoloso». E in effetti le deposizioni di Paolo Gabriele ai magistrati vaticani sembrano suffragare la diagnosi del perito. Un mix sconcertante di ingenuità, toni apocalittici e suggestioni da invasato. Gli trovano in casa una «cinquecentina» di grande valore (la traduzione dell’Eneide di Annibal Caro del 1581) e lui spiega di averla presa per il figlio che a scuola studia Virgilio. Gli restano in mano un assegno da 100mila euro e una pepita d’oro donati al Papa? «Colpa del mio disordine», si giustifica. Ma è quando la spiegazione scende più in profondità che a un miliardo e duecento milioni di cattolici vengono i brividi. L’uomo che per sei anni è stato l’ombra di Benedetto XVI si sentiva «un infiltrato dello Spirito Santo contro il peccato nella Chiesa». E ora ci si chiede: se invece di derubare il Papa, avesse attentato alla sua vita? Il Gabriele-pensiero oscilla tra la motivazione implausibile e l’auto-esaltazione. Oltre agli interessi personali, fra i quali quello per l’«intelligence», l’ex aiutante di camera riteneva che «il Sommo Pontefice non fosse correttamente informato». Ciò lo ha spinto a sottrarre documenti riservati dall’appartamento di Joseph Ratzinger. Insomma, in missione per conto dei poteri celesti. Con cura precisa di aver «proceduto alla duplicazione dei documenti fotocopiandoli in ufficio e successivamente portandoli a casa». Negli ultimi tempi, «quando la situazione è degenerata», provvedeva, «per non restare senza copie», alla loro duplicazione attraverso la fotocopiatrice inserita nella stampante del computer». In effetti, ha spiegato Gabriele, «non ho conservato alcun documento originale in quanto altrimenti ne sarebbe stata notata la mancanza».
Anche se il possesso di tali documenti è «cosa illecita», Gabriele ha creduto giusto agire così «spinto da diverse ragioni». E cioè «vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, ero sicuro che uno choc, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario». Come se non bastasse, puntualizza: «In qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera infiltrato». A guidarlo sarebbe stato un «padre spirituale», il cui nome negli atti della magistratura è celato dietro una sigla. A lui Gabriele ha consegnato una copia dei documenti finiti anche al giornalista Gianluigi Nuzzi che li ha pubblicati nel libro «Sua Santità». Gabriele racconta di essere entrato in contatto con lui su Internet e di avergli fatto visita varie volte a casa sua a Roma. Intanto il «padre spirituale» prima ha conservato le carte segrete, poi ha deciso di bruciarle, consigliando all’ex maggiordomo di negare ogni addebito e di riconoscere le sue responsabilità esclusivamente di fronte al Pontefice. Ora le indagini si allargano verso un secondo livello, su altri attori e altre responsabilità. Da requisitoria e sentenza emergono una serie di chiarimenti su un capitolo di Vatileaks. La molla che fa scattare tutto è la pubblicazione, il 19 maggio, del libro di Nuzzi: i servizi di sicurezza vaticani impiegano pochissimi giorni a collegare i documenti riservati pubblicati nel libro, al nome di Gabriele, interpellano monsignor Georg Gaenswein, segretario del Papa e lo avvisano dei sospetti. Si tiene una drammatica riunione delle persone più vicine a Benedetto XVI, comprese le «Memores Domini», in cui si chiede a ciascuno di dire se ha consegnato documenti a Gabriele. Gli eventi precipitano: perquisizione, arresto del maggiordomo, indagini a tappeto. Decine di documenti sono stati recuperati tra la casa in Vaticano e l’alloggio a Castelgandolfo di Gabriele, sottoposto a perizia psichiatrica proprio perché la gravità delle sue azioni strideva con il quadro di bontà e fedeltà dipinto dalle persone a lui vicine. «Avete trovato il capro espiatorio», protesta quando la sua colpevolezza è ormai evidente. Si dipinge come un «infiltrato dello Spirito Santo» che ha agito contro il «male e la corruzione» che sono «dappertutto» nella Chiesa, un uomo che «a sua insaputa» tiene per due mesi nel cassetto di casa un assegno di centomila euro intestato al Papa, un appassionato d’intelligence che voleva «fare chiarezza» all’interno del Vaticano. Le carte con cui la giustizia d’Oltretevere rinvia a giudizio Paolo Gabriele confermano, semmai ce ne fosse bisogno, che la conclusione di Vatileaks è ancora assai lontana. I «corvi», dunque, sono più d’uno. E lo ammettono anche gli stessi giudici, nei documenti ufficiali, pur nascondendo sospetti e sospettati dietro lettere anonime: X, W, Y, E. Dietro gli «omissis», la verità anche sulle parole e i silenzi di Gabriele.
"Quando la situazione è degenerata, per non restare senza copie, duplicavo con fotocopiatrice per non far notare la mancanza dell’originale Vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, ero sicuro che uno choc, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per tornare sul giusto binario"

Corriere 15.8.12
Com'è difficile fare gli italiani
Per secoli papato e impero impedirono la creazione di una coscienza nazionale
di Sergio Romano

Nel corso delle sue ricerche sulla storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo, uno storico francese dell'Ottocento, Edgar Quinet (1803-1875), trovò un curioso documento del 1223. Era una specie di manuale oratorio, composto da «discorsi ufficiali preparati per qualsiasi evento futuro o rivoluzione della repubblica: modelli di arringhe moderate, appassionate o violente a scelta dei governi e dei popoli per qualsiasi circostanza il futuro possa riservare». In questo «Che fare» dell'Italia dei Comuni l'uomo pubblico avrebbe trovato la parola giusta per ogni occasione. Voleva fare promesse, minacciare, esortare, manifestare gratitudine, invocare la religione e la libertà? Voleva mettersi alla guida di un movimento popolare e dichiarare guerra al potere? Il discorso di cui aveva bisogno era già scritto, pronto all'uso.
Dalla scoperta di questo «ingenuo embrione» di cinico machiavellismo Quinet trasse la convinzione che i Comuni della penisola, così ricchi di nuovi istituti civili e di felici intuizioni economiche, mancassero degli ingredienti necessari per la nascita di una nazione italiana: il senso del diritto e il sentimento di una orgogliosa e inalienabile indipendenza. Per essere governati sceglievano un podestà straniero. Per difendersi si affidavano a una banda di mercenari. Per sconfiggere un nemico erano pronti a invocare l'aiuto di un potere straniero o a negoziare mediocri compromessi.
Proseguendo nei suoi studi, Quinet spiegò queste carenze constatando che i ceti dirigenti delle società comunali erano abbagliati dal ricordo dell'Impero romano e dalla convinzione che il vero Potere, come quello di Roma, non potesse che essere universale. Erano pronti a battersi, se necessario, contro gli imperatori scesi dal Nord, ma li riconoscevano pur sempre eredi degli imperatori romani e non riuscivano a trovare in sé la forza di contestare la legittimità della loro corona. Non potevano fondare il loro diritto e preparare così la nascita di uno Stato italiano, perché erano tributari di un diritto esterno collocato in un'autorità per la quale nutrivano un innato rispetto reverenziale. L'Italia rinasce con i Comuni, ma non crede di appartenere a se stessa.
Il problema italiano, secondo Quinet, era ulteriormente complicato dall'esistenza nella penisola di un altro potere (quello della Chiesa cattolica), altrettanto persuaso della propria universalità e risolutamente deciso a impedire la nascita di un concorrente civile sulla «sua» terra d'elezione.
Il confronto con la Spagna è illuminante. Nella Penisola iberica il clero cattolico aveva combattuto a fianco del popolo contro i «mori» e aveva dato un contributo decisivo alla nascita della nazione spagnola. In Italia la Chiesa, nella lotta per il potere, era in campo con altri giocatori, e il suo clero, anziché battersi con il popolo, lo esortava a trattare, a cedere, a piegarsi.
Per l'Italia il risultato di questa contrapposizione fra due universalità — l'impero e il papato — fu duplice: una ininterrotta sequenza di guerre intestine e un percorso completamente diverso da quello che favorì la nascita dei maggiori Stati europei. Vi furono alcuni grandi ribelli, figure spirituali come Girolamo Savonarola, o teorici della politica come Niccolò Machiavelli, che cercarono di rompere questa catena della doppia lealtà e sognarono una penisola indipendente. Ma Savonarola vide nell'invasione di Carlo VIII, re di Francia, la giusta punizione dei peccati italiani; e Machiavelli scelse, per la redenzione dell'Italia, Cesare Borgia, duca Valentino, il figlio incestuoso e crudele del peggiore pontefice romano. Il primo morì sul rogo, il secondo concluse la sua vita constatando amaramente che nessuno gli aveva dato retta.
Ripetutamente invasa dagli Stati del Nord, l'Italia non si difese, scrisse Quinet, perché non esisteva. Il peggiore effetto di quegli eventi fu il declino del carattere degli italiani. Un popolo allevato nell'arte di negoziare, mentire, ingannare e vendere l'indipendenza per comprare la quiete della servitù, finì per odiare tutti coloro che cercarono di risvegliarlo dal suo letargo.
Quando i francesi, nel 1796, portarono in Italia i principi della rivoluzione, gli italiani si comportarono come il prigioniero cieco, sepolto nelle segrete della Bastiglia, che accolse i suoi liberatori, il 14 luglio 1789, come se fossero i suoi carnefici. Al messaggio di libertà che Bonaparte, nonostante tutto, portava con sé, gli italiani risposero con le Pasque veronesi, le insorgenze, le bande del cardinale Ruffo, i massacri di Pavia, Genova, Napoli. I secoli trascorsi dalle guerre d'Italia avevano modificato il carattere del popolo italiano. «Come mai — si chiese Quinet — tutto ciò che aveva costituito la sua vita nel Medio Evo, libertà, elezioni, rivoluzioni, gli era diventato odioso, e invece si era appassionato per la monarchia, il diritto ereditario, il legittimismo, tutte cose ignorate o odiose ai suoi antenati?».
Queste riflessioni sulla storia italiana sono in un grande libro che Edgar Quinet scrisse tra il 1848 e il 1852. S'intitola Le rivoluzioni d'Italia, nel Novecento fu più volte tradotto in italiano (per Laterza e Einaudi) e ritorna ora nelle librerie in una bella edizione pubblicata da Aragno a cura di Maria Grazia Meriggi, docente di Storia contemporanea all'Università di Bergamo.
Quinet fu storico della cultura e della politica, nello spirito della migliore storiografia tedesca dell'Ottocento, e insegnò con Jules Michelet al Collège de France, la più autorevole istituzione accademica di Parigi. Ma fu anche uomo pubblico, impegnato nelle battaglie liberali contro la monarchia e il Secondo impero, esule a Bruxelles e in Svizzera, grande avvocato dell'Unità italiana, deputato della Senna all'Assemblea nazionale francese dopo la guerra franco-prussiana del 1870. Il suo libro sulle Rivoluzioni d'Italia, quindi, riflette al tempo stesso un grande amore per la materia dei suoi studi, le sue convinzioni politiche e i grandi avvenimenti degli anni in cui fu scritto.
Terminò il primo volume dell'opera agli inizi del 1848, poco prima della rivoluzione parigina di febbraio e di quelle che sarebbero scoppiate nelle maggiori città europee. Nel progetto di un'Italia guelfa, presieduta dal Pontefice romano, vide la ripetizione dell'equivoco che aveva tradizionalmente sbarrato la strada all'unità nazionale. Per creare l'Italia, scrisse in una nota del 23 agosto del 1848, occorrevano due condizioni, strettamente collegate: abolire il dominio temporale del papato e scacciare lo straniero. Non usò mai nei suoi scritti la parola Risorgimento perché l'Italia «non è mai esistita, nemmeno un solo giorno», e non poteva quindi risorgere. Morì nel 1875, quando le due condizioni per l'unità della nostra penisola si erano ormai avverate. Ma quando sarà giunto alla fine del suo libro il lettore si chiederà se alle due condizioni necessarie elencate da Quinet non sarebbe utile aggiungerne una terza, ancora incompiuta: il mutamento del carattere degli italiani.

Repubblica 15.8.12
La morale della filosofia
Diversi studiosi affrontano il tema di come si possa stabilire quando un comportamento è lecito
Dalla vaghezza alla responsabilità come riconoscere i confini dell’etica
di Franca D’Agostini

Che differenza c’è tra il mafioso che chiede un «pizzino» per «protezione» a un commerciante sotto la palese od occulta minaccia di bruciargli il negozio, e il professore universitario che fa pressioni su un collega più giovane per ottenere da lui qualche vantaggio, sotto la palese od occulta minaccia di bloccargli la carriera? Che cosa distingue un amichevole scambio di favori dalla prostituzione? Quando, esattamente, una concertazione democratica diventa patto criminale? È l’antico problema della vaghezza, di cui ha parlato Achille Varzi su Repubblica del 17 luglio: una questione già molto nota nel IV secolo a. C., e che occupa e ha occupato intensamente i lavori dei metafisici e dei logici, soprattutto a partire dal secondo Novecento. Difficile stabilire confini, porre limiti, o come si dice: identificare con esattezza l’antiestensione dei predicati, il punto in cui sì, le cose stanno così, e più in là no, non stanno così. Ecco dunque emergere il mentitore borderline, il mafioso borderline, il furbo borderline (quasi criminale, ma non del tutto), e naturalmente: il corruttore borderline. Tutti personaggi che per lo più se la cavano, perché sfruttano la vaghezza, vale a dire, banalmente: l’antica e perenne incertezza dei nostri giudizi sui confini. La difficoltà di fissare limiti, e “tagliare” la realtà è anzitutto un problema metafisico, logico, e di filosofia del linguaggio. E alla prospettiva metafisica è dedicato il recente Vaghezza di Sebastiano Moruzzi (Laterza, 2012), mentre La vaghezza, di Elisa Paganini (Carocci, 2008) è focalizzato piuttosto sulla filosofia del linguaggio. Varzi stesso, a cui si deve la maggiore diffusione del tema in Italia (con Parole, oggetti, eventi, pubblicato da Carocci nel 2001, e più di recente con Il mondo messo a fuoco, Laterza 2010), è un logico e un metafisico. Ma una tesi centrale di Varzi è che le questioni logiche e metafisiche non circolano soltanto nell’aria rarefatta delle aule di filosofia, ma hanno pesanti e problematiche ricadute pratiche, morali, politiche, giuridiche. E proprio queste ricadute rendono la vaghezza estremamente importante e interessante. Alla vaghezza giuridica sono dedicati il libro di Timothy Endicott, Vagueness in Law (Oxford University Press, 2003), e Dalla vaghezza del linguaggio alla retorica forense, di Federico Puppo (Cedam, 2012). E in effetti i giudici, i giuristi, e gli stessi avvocati sono costantemente alle prese con problemi di confine. Non esistono però, a quanto sembra, specifiche ed estese trattazioni sulla vaghezza morale, e politica. Eppure tutti noi, quando dobbiamo capire, decidere, scegliere, rifiutare o perdonare, ci misuriamo con il vago. E tutti noi siamo messi in trappola, molto spesso, da chi fa saltare la scacchiera, e ci dice: tutti corrompono, tutti si prostituiscono, tutti fanno pressioni, scambiano e concertano con finalità più o meno ineccepibili, al limite: tutti hanno ragione e torto, dunque non vale la pena darsi da fare. Da cui l’indifferentismo morale e metafisico, e il cosiddetto nichilismo giuridico, e infine la politica formale, senza contenuti, triste meccanismo di alleanze sventate e tattiche distruttive, a cui siamo abituati. Nella vita democratica il vago riguarda in modo caratteristico il giudizio sulla corruzione: il «vendersi» che è in qualche modo quasi inevitabile, quando gli esseri umani non sono vincolati da doveri trascendenti, ma solo dalle loro transazioni linguistiche, economiche, affettive. E in questo senso si dice che la corruzione è quasi un portato necessario della democrazia. Ma necessario quanto? Quanto davvero inevitabile, e perciò a fortiori accettabile? Le cifre sono note: la corruzione costa 60 miliardi l’anno; ogni italiano paga circa 1.500 euro all’anno per la corruzione. Il decreto contro la corruzione proposto dal governo Monti è stato giudicato «un piano di reati troppo vaghi e lasciati alla libera interpretazione dei giudici». Ma per l’appunto la questione è la vaghezza: del reato, della giustizia, di ciò che sappiamo della realtà. Ogni legge, ogni nostra regola di convivenza civile, in linea di principio, può essere messa in forse dal gioco del “fino a che punto? ”. Che fare? La prima risposta non è difficile, ed era sullo sfondo degli sforzi dei Megarici (gli scopritori della vaghezza). Si tratta anzitutto di riconoscere che la vaghezza è vera, nel senso che è un fatto autenticamente osservabile dei nostri linguaggi e della realtà stessa in cui ci muoviamo. Chi non vede la vaghezza, non soltanto è accecato dalle proprie convinzioni, ma è anche fatale vittima degli ingannatori borderline, perché si priva degli strumenti intellettuali utili per dire: «no, un momento: mi stai ricattando e non lo accetto, mi stai minacciando e non puoi farlo». In secondo luogo si tratta di ricordare che, come invece mostravano Platone e Aristotele contro i Megarici, non è affatto vero che non c’è torto né ragione, e non c’è giusto né sbagliato: piuttosto si tratta di tagliare, nel continuo della realtà, il giusto e l’ingiusto, la ragione e il torto. Siamo noi, evidentemente, a tagliare, e non sempre la realtà ci dice dove farlo. Ma certo è che ci sono tagli buoni e tagli cattivi. Bisogna allora imparare l’arte di tagliare, che è in definitiva l’arte di parlare, e di pensare. Va notato che è questo l’unico strumento a nostra disposizione contro i distruttori della ragione fintamente razionali. In Hitler c’era una precisa coscienza della vaghezza. In un dialogo riportato da Lorella Cedroni ( Menzogna e potere, Le Lettere, 2010), il dittatore dichiara: «so bene anche io che non esistono razze nel significato scientifico della parola; ma il concetto di razza «mi serve per agire politicamente, e programmare un nuovo ordine politico, esattamente come serve a un allevatore di bovini, il quale sa che senza razze non vi può essere allevamento». Oggi forse, grazie al lavoro dei filosofi che studiano la vaghezza, abbiamo – possiamo avere – una visione più precisa del problema. Questo naturalmente non vince la vaghezza e non mette a tacere del tutto il finto razionalismo di chi la sfrutta a suo vantaggio. Ma come si dice: vedere bene un problema significa vederne anche, caso per caso, la soluzione. (Franca D’Agostini è una filosofa, tra i suoi libri “Analitici e Continentali” pubblicato da Cortina)

Repubblica 15.8.12
Perché l’Europa inventò i processi alle streghe
Un libro ricostruisce la persecuzione che durò quasi tre secoli, riguardando tanti paesi
di Agostino Paravicini Bagliani

Come pochi altri fenomeni storici, la caccia alle streghe fa parte della memoria collettiva, ma forse non ci si ricorda sempre che l’Europa si servì di questo strumento di repressione per più di tre secoli. Anna Göldi, forse l’ultima vittima di un processo di stregoneria, fu bruciata sul rogo il 18 giugno 1782 (e riabilitata ufficialmente il 27 agosto 2008 dal parlamento del cantone svizzero Glarus). Più di 350 anni prima, verso la fine degli anni 1420, tra la Valle d’Aosta e il Delfinato, nel Vallese e lungo la Riviera del lago Lemano affiorano le prime notizie di cacce a stregoni e a streghe. Uomini e donne di ogni ceto sociale furono allora accusati di appartenere ad una setta presieduta dal demonio, di provocare ‘malefizi’ e di commettere atti di cannibalismo, infanticidi e profanazioni, di abbandonarsi ad orge con il demonio e così via. L’esistenza di questa immaginaria setta del ‘sabba’ si diffonderà rapidamente in Europa grazie al ricorso alla tortura. Soltanto sotto tortura inquisitori e giudici vennero a conoscenza di nomi di complici. In Italia, proprio nel 1427, il francescano Bernardino da Siena racconta di avere predicato a Roma su “incantamenti, streghe e malie” facendo così accusare “una moltitudine di streghe e di incantatori”. Una di queste avrebbe ucciso “trenta fanciulli col succhiare il sangue loro”. Grazie agli studi di questi ultimi decenni, sui quali disponiamo ora di una sintesi chiara ed informata (Marina Montesano, Caccia alle steghe, Salerno editrice) si è venuta delineando un’impressionante carta europea delle cacce alle streghe che riguarda sia il mondo cattolico che protestante e ha coinvolto tutti i poteri, da quelli ecclesiastici — in massima parte responsabili nel primo Quattrocento di avere costruito l’immaginario della setta del ‘sabba’, presieduta dal demonio — a quelli laici. E’ una carta europea con mille divergenze. Nelle città tedesche di quel periodo, la cifra totale delle vittime si aggira tra le 22.000 e le 25.000. In Francia, invece, il Parlamento (allora il tribunale di ultima istanza) si mostrò molto cauto, emettendo ‘soltanto’ un centinaio di condanne a morte, e nessuna dopo il 1625. La Francia conobbe però la tragica vicenda di Loudun che diede luogo ad un intenso dibattito ed è rimasta — basti pensare ai numerosi film che le sono stati dedicati — nell’immaginario collettivo. Già nel 1608, i Paesi Bassi rinunciano definitivamente ai processi di stregoneria. L’Ungheria non li ha mai ammessi senza però poter evitare, lì come anche nei Paesi Bassi, si sviluppassero linciaggi popolari. In Inghilterra, la stregoneria diventa reato nel 1542. Sospeso nel 1547, fu reintrodotto da Elisabetta I e rimase in vigore sino al 1736. Già nel Cinquecento, giuristi e umanisti italiani (Andrea Alciati) e del Nord Europa (Johann Wier) denunciano il fenomeno. L’Alciati, colpito dalla durezza dei processi di stregoneria in corso in Valtellina, ritiene assurdo credere che gli accusati si fossero recati in volo al ludum (il ‘sabba’). Al Wier risponde invece Jean Bodin con un una delle più feroci difese della credenza all’immaginario del ‘sabba’, accusando persino il Wier di essere lui stesso uno stregone... Ad un fenomeno così ampio — nel tempo e nello spazio — non si possono attribuire ‘spiegazioni monocausali’, sottolinea molto giustamente Marina Montesano. Se la ‘caccia alle streghe’ è durata così a lungo, lo si deve ad una molteplicità di fattori che hanno contribuito a costruire uno strumento flessibile, capace di coagulare credenze al potere occulto dei maleficia ed elementi della cultura classica; il patto con il demonio e la profonda misoginia delle società europee; le credenze multiple alla metamorfosi dei corpi e al volo delle striges, oltre che le complesse costruzioni demonologiche dei teologi domenicani. Nei processi per stregoneria si è dunque “assottigliato il dislivello tra ‘alto’ e ‘basso’”. E se ne ha la controprova nel Settecento, quando autori così diversi come Muratori e Voltaire tentano di portare un colpo decisivo considerando le accuse nei processi per stregoneria come delle ‘superstizioni’, frutto dell’ignoranza. Il patto tra l’‘alto’ e il ‘basso’ si era ormai spezzato. La critica di Voltaire fu di natura illuministica e di valenza generale, ma anche elitaria…: “la sola filosofia ha guarito infine gli uomini da questa abominevole chimera”. E per questo i giudici devono smettere di “bruciare gli imbecilli”!.

Repubblica 17.8.12
Dimenticate i cinque sensi adesso sono almeno dieci
Il saggio di un ingegnere, che si basa su chimica, fisica e neurofisiologia, sostiene che non sono solo cinque ma molti di più
Tu chiamale se vuoi percezioni
Oltre la vista e l’olfatto, i sensi sono almeno dieci
di Piergiorgio Odifreddi

TRA i lasciti del sapere classico, i più duraturi sono le classificazioni dei quattro elementi e dei cinque sensi. I quattro elementi oggi sono passati di moda, eccetto che nelle librerie esoteriche, per almeno due buoni motivi: gli elementi chimici sono circa un centinaio, invece di quattro, e nella loro pur lunga lista non si trovano né la terra, né l’acqua, né l’aria, né il fuoco. Dunque, la classificazione era completamente sbagliata, e va relegata tra le ingenuità prescientifiche. Diverso è il caso dei cinque sensi, perché basta un po’ di introspezione per accorgersi che la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto costituiscono “le porte della percezione”: le stesse che ispirarono a William Blake un verso del Matrimonio del Paradiso e dell’Inferno, che diede il titolo a un libro di Aldous Huxley sulle droghe, e ai Doors il nome del loro gruppo musicale. Secondo il poeta, «se le porte della percezione si sgombrassero, tutto apparirebbe all’uomo com’è: infinito». Ma fino a quando le porte rimangono ingombre, lo scienziato dovrà limitarsi a dire che i sensi costituiscono gli strumenti che permettono di trasformare gli stimoli fisici esterni in sensazioni fisiologiche interne, che vengono poi elaborate dal cervello in percezioni mentali. E proprio alla descrizione di questi tre aspetti dell’interazione fra natura e uomo è dedicato il recente Un tour dei sensi. Come il cervello interpreta il mondo di John Henshaw, non ancora tradotto in italiano (John Hopkins University Press, 2012). L’obiettivo dell’autore, che di professione è un ingegnere meccanico, è duplice. Da un lato, parlare appunto dei sensi in maniera scientifica, e non umanistica: concentrandosi, cioè, sulle particolarità fisiche, chimiche e neurofisiologiche della sensazione e della percezione, più che sulle generalità letterarie e sociologiche del cosiddetto “impero dei sensi”. E, dall’altro lato, sottolineare che, al pari della lista classica degli elementi, anche la lista classica dei sensi è drasticamente sottodimensionata, e va almeno raddoppiata. Il libro classifica i sensi in base alla loro natura: ad esempio, il tatto e l’udito sono meccanici, la vista elettromagnetica e l’olfatto e il gusto chimici. L’udito ci permette di percepire una grande porzione del mondo acustico: la decina di ottave dello spettro del suono udibile, appunto, fra gli infrasuoni e gli ultrasuoni. La vista, invece, soltanto una piccola porzione del mondo elettromagnetico: l’ottava dello spettro della luce visibile, fra l’infrarosso e l’ultravioletto (il motivo è semplice: noi discendiamo da esseri acquatici, e l’acqua assorbe le altre lunghezze d’onda). Con 100 milioni di recettori visivi possiamo però discernere 10 milioni di colori, a fronte dei soli 10.000 odori che ci fornisce l’olfatto, con i suoi 3 milioni di recettori. Quanto al gusto, il suo mezzo milione di recettori ci permette di distinguere cinque o sei gradazioni: dolce, amaro, salato, aspro o acido, saporito o umami, e grasso. Superando la limitazione classica dei cinque sensi, il miglior candidato alla qualifica di “sesto senso” è certamente l’equilibrio. Il motivo per cui esso è sfuggito all’attenzione degli antichi, è che i suoi organi sono interni. Si trovano infatti nel labirinto di ciascun orecchio: di qui il termine di “labirintite” per la loro disfunzione. Questi organi consistono di un sistema vestibolare formato da tre canali semicircolari, e da due organi otolitici: l’utricolo e il sacculo. I canali semicircolari sono disposti in direzioni perpendico-lari, come i tre assi cartesiani, e rilevano le accelerazioni rotazionali provocate dai movimenti della testa attorno al perno del collo. Gli organi otolitici rilevano invece, tramite il movimento di sassolini di ossalato di calcio chiamati appunto otoliti, le accelerazioni lineari provocate dai movimenti avanti e indietro, o a destra e sinistra, del corpo. Per i movimenti in alto e in basso sia- ovviamente meno attrezzati, come dimostrano le tempeste sensoriali ed emotive provocate dalle montagne russe o dai salti nel vuoto. Altri due sensi sono mimetizzati nei recettori della pelle, alla quale in genere noi attribuiamo soltanto il tatto. In realtà, un momento di riflessione ci conferma che essa trasmette anche le sensazioni di temperaturae di dolore, che si percepiscono attraverso termocettori e nocicettori, consistenti sostanzialmente di nervi scoperti. I primi forniscono le sensazioni di freddo, tiepido e caldo. I secondi sono invece responsabili della percezione di due tipi di dolore: acuto e localizzato, oppure sordo e diffuso. E si trovano non soltanto sulla pelle, ma anche nei muscoli, nelle articolazioni e nelle viscere, benché non nel cervello. Nonostante la sua spiacevolezza, il dolore è ovviamente un importante meccanismo di al- lerta e difesa, che permette di identificare ed evitare situazioni potenzialmente pericolose. Ad esempio, quando la sensazione di temperatura supera o una certa soglia di freddo o di caldo, agli estremi di un intervallo compreso all’incirca fra i 15 e i 45 gradi, i nocicettori attivano appunto una reazione dolorosa che ci spinge ad allontanarci dalla sorgente. Un altro senso è nascosto invece nei recettori della lingua. Si chiama genericamente senso chimico comune, ed entra in funzione quando abbiamo a che fare con il peperoncino, il mentolo o l’ammoniaca. Che qui non siano propriamente in funzione né il gusto, né l’olfatto, lo dimostra il fatto che usiamo istintivamente termini legati alla temperatura, dicendo che il peperoncino “brucia”, mentre il mentolo è “fresco”. C’è infine, benché la cosa sia un po’ meno immediata da nomo tare, la cosiddetta propriocezione. È a questo senso nascosto che dobbiamo la percezione del nostro corpo, tramite dei propriocettori dislocati in punti nevralgici. In particolare, i fusi neuromuscolari rilevano le contrazioni dei muscoli. I sensori delle capsule articolari gli spostamenti dei segmenti ossei. E gli organi del Golgi la tensione dei tendini, per rilassarli e inibirne l’uso quando questa supera un livello di guardia. La nostra lista dei sensi ha dunque ormai raddoppiato quella classica. Volendo, però, potremmo continuare, perché neppure essa è esaustiva. Ad esempio, il sistema vascolare possiede barorecettori e osmorecettori, che registrano le variazioni di pressione e di fluidità del sangue, e contribuiscono alla regolazione dell’omeotermia: cioè, al mantenimento di una temperatura costante. Quanto all’attrazione sessuale, uno specifico organo sensibile ai feromoni è posseduto non solo da molti animali, nel naso o vicino ad esso, ma anche dai feti umani, benché si atrofizzi nell’infanzia: i feromoni continuano però ad essere percepiti, principalmente attraverso l’olfatto, nell’odore naturale della pelle e nei prodotti cosmetici artificiali. A proposito di animali, per la lista dei loro sensi ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. I pipistrelli, i delfini e i capodogli si orientano per ecolocazione, sfruttando l’eco di ultrasuoni che emettono: per i primi si tratta di un’estensione dell’udito, per i secondi di un senso alternativo situato nelle mascelle e sulla fronte. Gli squali, le anguille elettriche e gli ornitorinchi sono forniti di un sistema di elettrolocazione per il rilevamento di campi elettrici, situato sottopelle nella testa, sui fianchi o nel becco. Le api, i piccioni e i salmoni, di un analogo sistema di magnetolocazione per i campi magnetici. Le stesse api percepiscono l’ultravioletto, con un’estensione della vista. Alcuni serpenti, l’infrarosso, con un recettore specifico piazzato in una fossetta sul capo. E il narvalo, addirittura la salinità dell’acqua, tramite la sua lunga zanna. Ma da qualche parte bisogna pur fermarsi. Henshaw decide di farlo ricordandoci che i sensi si sono sviluppati per permetterci di affrontare al meglio le situazioni naturali, e non per essere violentati al peggio da quelle innaturali che ci bombardano nella vita moderna. E ci ammonisce che, per ritrovare la pace dei sensi, occorrerà prima o poi oscurare le pervasive immagini dei videoclip, silenziare gli ossessivi rumori della muzak, eliminare gli onnipresenti miasmi della pollution, bandire i malsani cibi di plastica dei fast food, e farla finita con tutte le altre inciviltà che attentano all’incolumità non solo della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto, ma anche e soprattutto del buon gusto e del buon senso.

“A Tour of Senses: How Your Brain Interprets the World” di John M. Henshaw è pubblicato da The Johns Hopkins University Press (pagg. 288, 29,95 dollari)

Repubblica 17.8.12
Ma Kant e Spinoza non diventanp pop
Il dibattito su rassegne e festival dedicati alla filosofia
di Roberto Esposito

Il dibattito estivo che si è aperto sul significato della filosofia nella società contemporanea è estremamente importante. Non solo perché rompe anacronistici confini disciplinari, collocando il sapere filosofico al centro della discussione pubblica. Ma anche perché consente di fare chiarezza su questioni a volte coperte dalla patina di vecchi e nuovi luoghi comuni. L’articolo del 23 luglio, che lo ha virtualmente aperto, non è stato interpretato nella sua intenzione di fondo – che era quella di porre un interrogativo sullo scarto vistoso aperto tra la diffusione crescente della filosofia e la sua mancata incidenza nelle pratiche di vita. In esso non c’era affatto, dunque, una critica ai luoghi di incontro tra filosofi, quali sono soprattutto i festival di filosofia – di cui al contrario si valorizzava la funzione di supplenza rispetto sia alla religione che alla politica, entrambe in crisi di identità. Naturalmente s’intende che non tutti i festival sono uguali. C’è una netta differenza tra quello, ottimamente organizzato a Modena da Remo Bodei, e altri che lo hanno, non sempre felicemente, imitato. Devo, a tal proposito, ammettere che, quando, dopo il festival sulla spiritualità e quello sulla preghiera, ho sentito parlare di un festival su Dio, ho cominciato a pensare che qualcosa non funzionasse ed ho avvertito una forma di fastidio per l’espressione – ma deve trattarsi di una mia disfunzione di carattere allergico. Come hanno sostenuto con buoni argomenti sia Marcello Veneziani (su il Giornale del 30 luglio) che Paolo Legrenzi (su la Repubblica del 7 agosto), i festival filosofici assolvono una rilevante funzione di articolazione tra un sapere d’élite e una pratica conoscitiva allargata, se non proprio di massa. È anche il mio punto di vista. Così concordo con l’idea che si possano, e si debbano, cercare momenti di confronto tra filosofia analitica e filosofica continentale, come sostiene, con una punta di saccenteria, Franca D’Agostini su la Stampa del 25 luglio. Personalmente ho grande stima della più intelligente filosofia analitica proprio per la sua attitudine professionale, aliena dal narcisismo che talvolta affligge i filosofi continentali. Ciò che sostenevo nel mio articolo è che la sua fortuna testimonia della tendenza della filosofia moderna a concentrarsi – a differenza di quella antica, più aperta al mondo della vita – su questioni logiche e conoscitive. È esattamente questa tendenza di lungo periodo ad impedire, o almeno rallentare, il transito dalla pratica filosofica ad una reale trasformazione delle coscienze, e dunque anche a neutralizzarne la potenzialità in senso lato politica. Detto questo, sarebbe disonesto, per amore di consenso, tacere su un punto tanto delicato – per le sue risonanze apparentemente elitarie – quanto decisivo. Ferma restando la legittimità, e anche l’opportunità, della divulgazione, la pratica filosofica ha sì un’anima intrinsecamente politica, tesa alla critica dell’esistente e alla prefigurazione di un mondo migliore, ma non è, né può essere, “popolare”, come il calcio o la cucina cinese. Non solo, ma la stessa comunicazione filosofica ha precisi limiti, che è grottesco ignorare. Non si può spiegare in maniera credibile l’Ereignisdi Heidegger o lo schematismo trascendentale di Kant a chi non abbia una conoscenza sufficiente del loro linguaggio e anche di parte della storia della filosofia. La quale, come la musica e l’architettura, ha un lessico tecnico che non è possibile saltare o banalizzare. Non è che ascoltando uno, o dieci, concerti, s’impara a suonare uno strumento musicale. Il linguaggio della filosofia si può apprendere solo con un lungo, difficile, appassionato, apprendistato. Tutto il resto sono chiacchiere filosofiche. La filosofia, in quanto tale, non può servire a risolvere questioni di cuore o a consolare qualcuno che ha perso il lavoro. Semmai può contribuire a penetrare nell’enigma dell’amore o chiarire il significato globale del lavoro nella nostra vita. Io credo che i filosofi, sfidando il “filosoficamente corretto”, debbano pronunciare una parola di verità su questo punto. Come ben sapevano Spinoza, Nietzsche e Heidegger, pensare non è un attività naturale dell’uomo – come invece vivere, immaginare, sentire, sognare. Contro quella che sarà la tradizione del cogito ergo sum cartesiano, il più geniale interprete di Aristotele, Averroè, aveva affermato che il pensiero costituisce una sfera separata e impersonale rispetto agli individui viventi. Con ciò intendeva dire che il pensiero, in quanto tale, non appartiene a nessuno – è di tutti. Ma a patto che si sottopongano ad un arduo esercizio, ad una conversione radicale, destinata appunto, dopo averlo incontrato, a cambiare la loro vita.

Corriere 18.8.12
Perché l'ignoranza ci rende liberi
La competizione tra le idee è il solo rimedio ai limiti della conoscenza
di Dario Antiseri

«Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. La scienza è fallibile perché la scienza è umana». E ancora: evitare l'errore è un ideale meschino. Se ci confrontiamo con problemi difficili è facile che sbaglieremo; l'importante — e la cosa più tipicamente umana — è apprendere dai nostri errori. L'errore individuato ed eliminato costituisce il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. È questo il messaggio epistemologico di Karl Popper, più che mai attuale in questo periodo di crisi che mette in discussione tante certezze del passato.
Ebbene, il fallibilismo epistemologico — vale a dire la consapevolezza che le nostre conoscenze sono e restano smentibili — è un fondamentale presupposto del pensiero liberale. Nessuno può presumere di essere in possesso di una verità razionale ed assoluta da imporre agli altri. Razionalmente possiamo solo collaborare — attraverso la critica alle teorie vigenti e le proposte alternative ad esse — per il conseguimento di teorie sempre migliori. L'atteggiamento del liberale, scrive Popper, è quello di chi è disposto ad ammettere: «Io posso avere torto e tu puoi avere ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità». Ed ecco Luigi Einaudi: «Il grande merito dei governi liberi in confronto a quelli tirannici sta appunto nel fatto che nei regimi di libertà discussione e azione procedono attraverso il metodo dei tentativi e degli errori. Trial and error è l'emblema della superiorità dei metodi di libertà su quelli di tirannia. Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via, ma la via conduce il Paese al disastro».
Razionale non è il medico che, per salvare la diagnosi, uccide il paziente; razionale è il medico che, per salvare il paziente, uccide — cioè falsifica —, elimina le diagnosi una dopo l'altra finché arriva, se ci riesce, a quella giusta. In breve, se io so di essere fallibile e se tu sei consapevole della tua fallibilità, allora, se ci sta davvero a cuore risolvere i problemi, io aspetterò con ansia le tue alternative e le tue critiche; e tu sarai grato delle mie alternative alle tue proposte e delle mie critiche. Insomma: discuteremo. E la discussione è l'anima della società aperta.
Le nostre conoscenze, dunque, sono e rimangono fallibili. Ma è un errore, ha ammonito Friedrich August von Hayek, identificare fallibilità e ignoranza. Certo, potrà sembrare a prima vista un'eresia sostenere che «la conoscenza scientifica non è la somma di tutto il sapere». Tuttavia, non c'è dubbio che esista un corpo di conoscenze molto importanti, ma non organizzate e che nessuno considererebbe scientifiche nel senso di conoscenze di leggi generali — si tratta, fa presente Hayek, di quelle conoscenze particolari di tempo e di luogo disperse tra milioni e milioni di uomini e «rispetto alle quali ogni individuo si trova in vantaggio rispetto agli altri, dal momento che egli possiede informazioni uniche che possono essere utilizzate con profitto, ma solo se le decisioni che dipendono da queste vengono lasciate a lui o sono prese con la sua attiva collaborazione». Per convincersi dell'esistenza di queste conoscenze particolari di tempo e di luogo, «conoscenze all'istante», diffuse e non centralizzabili e che sono indispensabili per la soluzione di infiniti problemi, sarà sufficiente — afferma Hayek — porre l'attenzione «su quanto ci resta da imparare in ogni occupazione dopo che abbiamo completato l'addestramento teorico, quanta parte della nostra vita lavorativa è dedicata ad imparare lavori specifici e quale preziosa risorsa sia, in tutte le professioni, la conoscenza delle persone, delle condizioni locali e delle circostanze particolari». Qui sta esattamente la ragione per cui una società libera, in cui vige la cooperazione nella divisione del lavoro, può utilizzare molte più conoscenze di quante ne potrebbe contenere la mente del più sapiente dei governanti.
Conseguentemente, se davvero vogliamo risolvere i problemi, si dovrà tranquillamente ammettere che le decisioni finali dovranno venir lasciate alle persone che conoscono queste circostanze particolari di tempo e di luogo e che hanno conoscenza dei mutamenti rilevanti nelle specifiche circostanze e delle risorse e mezzi disponibili per farvi fronte. Da qui, pertanto, e con tutta chiarezza, il rapporto che Hayek stabilisce fra ignoranza e libertà. Il valore della libertà individuale «poggia soprattutto sul riconoscimento dell'inevitabile ignoranza di tutti noi nei confronti di un gran numero dei fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi e della nostra sicurezza».
Se esistessero uomini onniscienti, ben poco resterebbe da dire in favore della libertà. Siccome però, ogni individuo sa poco e, in particolare, solo di rado sa chi di noi sa fare meglio, «ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti per propiziare la nascita di quel desidereremo, quando lo vedremo». In conclusione con Popper: liberi perché fallibili. E con Hayek: liberi perché ignoranti.

Repubblica 18.8.12
L’artista, che ha spesso messo al centro del suo lavoro il rapporto con le passioni, spiega come sia possibile superare l’abbandono
Separazioni pericolose
Sappiamo che ‘per sempre’ non significa niente eppure dobbiamo arrenderci allo stato di innamoramento
Abramovic: “Condividere il lutto sentimentale ci aiuta a sopportarlo”
di Elena Stancanelli

Sostiene Marina che l’arte è l’ossigeno della nostra società. Essere artisti è una cosa seria, un impegno che pretende dedizione e coraggio. Serve una vita seriamente organizzata, perché il talento non si disperda. Abramovic padre era un militare e Marina è cresciuta nel culto della disciplina. Così qualche anno fa ha deciso di scrivere un decalogo, raccogliendo consigli per artisti. Il primo punto del “Manifesto per la vita di un artista” riguarda i precetti per una vita sentimentale che non intralci la professione. E dice: un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista/ un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista/ un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista. Perché di tanta insistenza? «La storia insegna che questi legami sono crudeli e fallimentari. Pensi a Camille Claudel. A diciotto anni, durante la sua prima mostra, conobbe Auguste Rodin. Che aveva ventitré anni più di lei e un’altra donna, Rose Beuret. Si innamorarono e si amarono follemente, ma lui non rinunciò mai all’altra donna, quella che lo accudiva e non contrapponeva forza alla forza, arte all’arte. Camille passò gli ultimi anni della vita rinchiusa in un ospedale psichiatrico, scannata dai suoi fantasmi. Non è solo una questione di gelosia, o di invidia. È piuttosto un equilibrio di forze molto complicato. Due artisti si affrontano senza poter cedere mai di un millimetro, mentre quello che servirebbe a entrambi è piuttosto una casa, una cuccia. L’unico esempio che mi viene in mente di una coppia di artisti capaci di vivere insieme e lavorare fianco a fianco per tanto tempo è quello di Gilbert & George. Compagni di vita e sodali nell’arte ormai da quasi quarant’anni». Fa una pausa, Marina Abramovic, e mi guarda. È nata nel 1946, a Belgrado. Adesso vive a New York, ma un attimo fa era a Londra e tra qualche giorno sarà a Venezia al Festival del cinema. Vive veloce e intensamente, e ha sempre usato se stessa e il suo corpo per esprimersi. Ogni sua performance è un evento dalle conseguenze imprevedibili, per sé e per il pubblico. Nel 1974, a Napoli, mise in scena Rhythm 0, quasi un sacrificio rituale. C’era solo lei, e un tavolo sul quale aveva apparecchiato strumenti per il piacere e il dolore, cibo, coltelli, una pistola, fiori, lamette. Avrebbe assecondato qualsiasi cosa le fosse stata fatta dal pubblico. Allo scadere del tempo assegnato, si ritrovò semi nuda, la pistola puntata alla tempia e l’energia erotica della sala fuori controllo. È questo che fa: ti spiazza, ti costringe alla presenza, ti chiama in causa. Negli anni si è tagliata fino a sanguinare, si è spogliata, stremata fino allo svenimento. Seguendo il precetto di Etty Hillesum, «si è offerta umilmente come campo di battaglia». Questa donna mi guarda e di colpo scoppia a ridere. In un attimo si trasforma dalla sacerdotessa oracolare in una ragazzina. «E comunque le regole raccontano di una condizione ideale — dice — sono consigli a chi è giovane. Non vuol mica dire che io mi sia sempre comportata come il mio decalogo chiedeva. Come tutti, ho sbagliato molte volte e molte volte sbaglierò ancora. E sarà giusto così». Tra le opere di Abramovic, ce n’è una che ho sempre ritenuto cruciale non solo per l’arte ma per la costruzione della nostra idea di amore. Nel 1987, dopo una relazione sentimentale e artistica durata 12 anni, lei e il suo compagno, Ulay, decidono di separarsi. E scelgono di farlo mettendo in scena una struggente cerimonia d’addio. Partono a piedi, dai due lati opposti della Grande Muraglia, in Cina, e camminano per novanta giorni. Fino ad incontrarsi, a metà, soltanto per stringersi in silenzio la mano e congedarsi l’uno dall’altra. Questa performance è stata documentata in un video. Le separazioni, le nostre guerre sentimentali. Siamo sprovveduti, non riusciamo a gestirle, ad accettarle, a trasformarle in altro che non sia immendicabile lutto, spesso talmente traumatico da inibire la fiducia in amori a venire. Forse per lenire il dolore di una separazione servono riti che la codifichino, che la rendano accettabile. «Io non lo so. Credo che l’arte e la vita siano due cose diverse. Io sono un’artista e non so dare consigli. Faccio il mio lavoro. Se vivo un’esperienza, non posso fare a meno di trasformarla in un gesto artistico Per me quella camminata era un rito, era il mio modo per separarmi. Ma non intendo farne una liturgia. Posso dire però che quel lutto riguarda tutti noi. Ognuno sa cos’è quello strappo, cosa accade quando un amore finisce. E forse avere coscienza del fatto che si tratta di un’esperienza così fortemente condivisa potrebbe già aiutarci a sopportarlo». Nel Manifesto, Marina Abramovic scrive ancora che l’artista dovrebbe sviluppare una punto di vista erotico rispetto al mondo. Scrive: «Un artista dovrebbe essere erotico / Un artista dovrebbe essere erotico / Un artista dovrebbe essere erotico». Che cosa significa? «L’energia erotica è la più potente a nostra disposizione. Forse l’unica. Per un artista è molto importante entrare in relazione con questa energia, imparare a fidarsene e saperla tradurre in un linguaggio espressivo. Amiamo, distruggiamo e creiamo attraverso la nostra energia erotica. È preziosa, irrinunciabile per un artista. Basta pensare ai lavori di Louise Bourgeois. Non trova che siano sempre, incredibilmente, erotici? ». Sì, nonostante il tempo. Tanto da chiedersi se, davvero, le modificazioni del corpo col procedere dell’età, incidano sul nostro modo di amare. «No, non credo che il modo di amare abbia a che fare coi cambiamenti del corpo. Si può amare nello stesso modo ad età diverse. E l’erotismo, la sensualità, non hanno niente a che fare con quello che normalmente intendiamo per bellezza. L’esperienza del Meltdown mi ha molto colpito». Lecture for women only, è il titolo della performance di Abramovic che si è svolta all’Elizabeth Hall, in occasione del Meltdown Festival, diretto da Antony Hegarty. Cantante del gruppo Antony and the Johnsons, voce inconfondibile, candida e struggente, in un corpo misterioso, sessualmente post-ambiguo, l’artista collabora con Marina dalla messinscena di Life and death of Marina Abramovic, spettacolo diretto da Bob Wilson e interpretato da Willem Dafoe, del quale ha scritto le musiche. «Ci siamo ritrovate in 2500 femmine — racconta —. Molto diverse per età e caratteristiche. C’erano ragazzine molto giovani, adulte, donne anziane, disabili. È stata un’esperienza fortissima. Nessuna di noi, ne sono certa, aveva mai vissuto una situazione del genere. In quel momento mi sono resa conto che la forma esterna del corpo non ha alcuna importanza». Willem Dafoe è protagonista anche dell’ultimo video di Antony, Cut the world, uno dei brani che fanno da colonna sonora allo spettacolo di Bob Wilson. Sul finale, tra una folla grigia, appare anche Marina Abramovic, con la solita disarmante potenza emotiva, nel suo solo camminare e guardare. «Ho obbedito a lungo al mio destino di donna/ distraendo il tuo desiderio di ferirmi/I miei occhi sono coralli, che accolgono i tuoi sogni/ la mia pelle un confine da violare/ Il mio cuore contiene scene di orrore/ ma quando girando il viso taglierò via il mondo? Canta Antony, e non è difficile capire perché questi due artisti siano tanto in sintonia. Mi sembra che la dinamica passività/ aggressività, che spesso utilizza nei suoi lavori, possa essere usata anche per raccontare quello che accade in amore, nel sesso soprattutto. «Certo. Ma non è l’unica. Non dimentichi mai che in arte, come nell’amore, quello che sembra materia confina con la spiritualità. Per me lo stato di innamoramento è uno stato di grazia e di felicità. Una resa. Per questo penso che il nemico più grande sia la paura di arrendersi completamente e per sempre. Anche quando si sa — anche quando sappiamo — che per sempre non significa niente». Per questo sceglie certi film sull’amore, piuttosto che altri: «Mi piace molto L’anno scorso a Marienbad, di Alain Resnais (scritto da Alain Robbe-Grillet) e Hiroshima mon amour, sempre di Resnais ma scritto da Marguerite Duras. Ho sempre pensato che fossero le due facce dello stesso racconto, dal punto di vista dell’Est e dell’Ovest del mondo. E poi Teoremadi Pasolini». Per questo l’immagine classica del cuore trafitto per rappresentare l’amore non la convince. «Mi sembra strana. L’amore non è nel cuore, o non solo. Se penso all’amore l’immagine che mi viene in mente è un corpo che si dissolve in luce. Le piace? ».

La Stampa 19.8.12
Decrescita felice e socialismo utopistico
di Guido Ceronetti

Potrei definirlo così, il Pil, lodato quando e dove cresce (non importa il come), deplorato unicamente quando e dovunque non cresca: un fantasma che infesta le menti (dalle più semplici alle meglio fornite di strumenti per dominare). Se la mente se ne libera, e apre le finestre alla verità, il pensiero liberato arriverà a ragionamenti diversi, a conclusioni finora non pensabili.
Come questa: che l’idea della Decrescita del Pil è migliore dell’idea fissa, cara a tutti i poteri che ci opprimono - dai governi alle mafie - che la Crescita (del Pil, funesto infestatore) non abbia nessuna alternativa possibile.
Ne parlo con Maurizio Pallante, inventore del movimento e della formula alternativa della Decrescita Felice, senza riportare nulla dal suo libro con questo titolo (Edizioni per la decrescita felice, 2005) perché con quest’uomo singolare, romano di nascita, abitante nella zona più verde della provincia astigiana, sessantacinquenne, ho l’occasione di un rapporto di amicizia e di un colloquio diretto.
Voglio ancora osservare, prima di interpellarlo, come in questa formidabile crisi del pensiero, cominciata molto tempo prima di quella della Lehman Brothers, siano presenti molti segni indicati con premonizione in tutte le trattazioni sul significato della Tecnica, di Martin Heidegger: basterebbe a «qualcosa di più alto» allacciare tutti i discorsi obbligatori e facili (talmente facili che li abbiamo imparati a memoria dai giornali) che si fanno dappertutto sull’economia, vista come un soffocante assoluto senza il minimo scrupolo di obbiettività. Ma dove tutto si relativizza, dove tutto è visto come puramente relativo e dissacrabile, ha senso assolutizzare il Pil, le cifre aziendali, le pensioni, le tasse, i conti della spesa, la Crescita di merci che non portano per niente a diminuzioni di infelicità o a più ricchezza nei rapporti umani?
Emendate il linguaggio e avrete trovato una chiave. Liberate la mente da una formica di falso e vi toglierete dallo stomaco il peso di un elefante.
Quel che va dicendo da qualche anno Maurizio Pallante in Italia è molto semplice, e nello stesso tempo implica una rivoluzione del pensiero alla quale aderisce sempre più gente, incredula nelle prediche del Potere legale, sempre più distaccata dalla politica, e una quantità di giovani intelligenti che l’enorme pallone di menzogne sospeso sul mondo allontana da tutto, disperatamente.
Sulla copertina dell’Espresso del 2 agosto leggevo «In vacanza con lo Spread»: ed è con questo tipo di attrazioni triviali che si vende svago ai lettori?
In vacanza andateci con Isaac Singer, Georges Simenon, Wells, Dostoevskij, per cui non è necessario ungersi la pelle, e pestate lo Spread sul bagnasciuga, con un disinfettante pronto.
Più formale, Pallante mi spiega così la Decrescita, come la va raccontando nelle sale e nei libri: «Vedi, per capire che cos’è la decrescita e come possa aiutarci a contrastare una crisi che resiste a tutte le misure di politica economica, dobbiamo bene distinguere tra oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio (definibili come beni) e oggetti e servizi che si scambiano con e per il profitto in denaro (definibili come merci). Il Pil e la Crescita non possono considerare altro che le merci e la loro produzione incessante. Merci però non sono beni. La Decrescita, che nessun politico ammetterebbe come un’opportunità felice, non è una diminuzione indiscriminata del Pil, ma selettiva, e totalmente da reimpostare. Introduce elementi di valutazione qualitativa del fare umano e consentirebbe di creare occupazione utile, non distruttiva per l’ambiente. Aprirebbe una fase più evoluta della storia umana... ».
A Pallante non è difficile persuadere a me - ecologista dal tempo delle bombe di Bikini - le sue buone ragioni. Ma la tendenza, in Italia e dovunque, è implacabilmente l’altra, che risponde al pensiero unico dominante. A me, ormai vecchio, vien voglia di gettare la spugna. È la boxe di un nano disperato contro un gigantesco bruto!
«Guarda che il cambiamento di rotta, vogliano o no saperne i poteri dominanti, sta diventando sempre più inevitabile. Abbiamo esempi che nessun analista può fingere di ignorare. Crollata l’Unione Sovietica, che comprava a Cuba tutta la produzione di zucchero, la salvezza di Cuba fu l’autoproduzione di beni, per mangiare non per acquistare il superfluo. Accadde lo stesso in Argentina. In Grecia, oggi, si salvano dalla crisi tutti quelli che invece di urlare sulle piazze riscoprono il lavoro delle mani e producono per se stessi i beni corrispondenti ai bisogni. In Italia è già così in parecchi settori di economia silenziosa: la famiglia che autoproduce i beni non conosce disoccupazione. È l’offerta di merci su merci tutte prodotte qua e là nel mondo, a rendere folle l’economia dei potenti. Il profitto perdente sta creando panico e suicidi. Ma il tuo nano disperato ha delle possibilità di sottrarsi ai pugni del bruto, e senza gettare la spugna! Perciò la popolarità dell’idea di decrescita è alta».
Da questo colloquio amichevole emerge «chi per lungo silenzio parea fioco»: le grandi ombre premarxiane dei Thoreau, dei Fourier, dei Saint-Simon, dei Gandhi, della società fabiana, dei Malthus, dei Tolstoij, che tuttora indicano altri cammini, altre vie... E il primo kibbuzismo sionista che cos’è stato? Non ha più nulla da insegnare al mondo? Era un’idea grande, una rivoluzione portatrice di pace...
Il socialismo disprezzato come utopistico da Marx, apostolo della mercificazione e della violenza, risorge anche nelle parole chiarificatrici e nei volti nuovi della Decrescita Felice.

Repubblica 19.8.12
“Scoprite le vite di Spinoza e Leibniz i pistoleri più veloci del West (filosofico)”
di Alessandro Baricco

Nel prolungato e virtuosistico esercizio di intelligenza che chiamiamo Storia della Filosofia brillano momenti di avventura assoluta e uno di questi, senza alcun dubbio, è la stagione, delicatissima, in cui a pochi eruditi di genio riuscì l’immane impresa di spaccare l’invincibile compattezza dell’ordine teocratico in cui si viveva, regalandoci l’opportunità di non morire sotto l’Inquisizione. La scienza diede la spallata decisiva, certo, ma il lavoro più raffinato lo fecero i filosofi, a cui spettò il compito di mettere insieme i cocci di una certezza collettiva che stava crollando e ricomporli in una qualche sicurezza con cui si riuscisse a campare. Già che la Bibbia non sembrava essere il sistema migliore per capire come andavano le cose, c’era da trovarne un altro che non facesse sentire proprio abbandonati nel nulla. L’impresa, oltre che difficilissima, era anche mostruosamente pericolosa, perché mentre loro pensavano e scrivevano, il mondo intorno era ancora rigidamente teocratico, per cui, a dirla in termini semplici, a dire cosa pensavi rischiavi la vita. Degli eroi, per essere chiari. Un modo ideale di farsi raccontare le loro imprese è leggere questo libro di Stewart, dedicato alle due figure che in quel West del pensiero incarnavano, per così dire, i due pistoleri più veloci della Frontiera: Spinoza e Leibniz. Diciamo che Cartesio gli aveva fornito le Colt, e loro sparavano come nessun altro. Come se la storia l’avesse scritta uno sceneggiatore di Hollywood, i due erano magistralmente antitetici, tipo Borg e McEnroe. Spinoza era olandese, faceva vita monacale, era un ebreo espulso dalla sua comunità (aveva idee spigolose per chiunque) e campava di un mestiere sublime: molava lenti per telescopi e microscopi. La sera, si dedicava in modo maniacale a un unico problemino da nulla, riassumibile così: che ne è di Dio in un mondo in cui l’uomo può cavarsela da solo? Quando morì, lasciò dietro di sé la seguente eredità: un ducato d’argento, qualche spicciolo e un coltello. Be’, oltre a un pila di scritti che avrebbero cambiato il mondo. Leibniz, al contrario, era luterano, tedesco, innamorato del denaro e della fama, abilissimo cortigiano: un uomo di mondo. Fu probabilmente l’ultimo genio universale: ebbe modo di dire la sua in una sfilza di discipline che merita di essere citata: chimica, cronometria, geologia, storiografia, giurisprudenza, linguistica, ottica, filosofia, fisica, poesia e teoria politica. Inutile dire che, in tanta generosità, gli accadde anche di sparare sciocchezze terrificanti (da giovane era vagamente convinto che la terra fosse fatta di bolle), ma resta l’ultimo luminoso esempio di cosa voleva dire essere dei sapienti quando il sapere era ancora bambino (ora è diventato adulto, e questa è la ragione per cui Steve Jobs non ha lasciato, oltre all’iPhone, trattati sull’angina pectoris e sull’accoppiamento dei camosci). A livello teorico, venivano entrambi dallo stesso posto, cioè dal futuro: giocavano nel campo aperto che Cartesio aveva spalancato (l’avremmo poi chiamato modernità) e la scoperta della razionalità come diritto e direzione dell’umano rappresentava per tutti e due un passaggio senza ritorno. Il problema era come coniugare questo passo avanti con una cosetta a cui nessuno dei due intendeva veramente rinunciare: Dio. In particolare Spinoza aveva fama di ateo pericolosissimo e radicale, ma non era questa l’idea che lui aveva di se stesso, e non riuscì davvero mai a capire come la gente potesse pensare questo di lui. (Lo avrebbe certo consolato la risposta che Einstein, molto tempo dopo, diede quando gli chiesero se credeva in Dio: «Io credo nel Dio di Spinoza»). Leibniz se la cavava meglio, perché era piuttosto un grande conservatore, un mediatore abilissimo, un democristiano del Seicento, e così di sottigliezza in sottigliezza riuscì a sollevare un tale polverone che quanto c’era di eretico del suo pensiero risultava alla fine imprendibile. Nati dalla stessa domanda, se ne filarono via poi per strade diverse, incontro a risposte diverse, e questo ne fa due tipici antagonisti da film. Dato che lo sceneggiatore aveva lavorato per bene, Spinoza, che non usciva mai di casa, era bellissimo; Leibniz, che non perdeva una festa, un mostro. E naturalmente: non si amavano. Ma anche si ammiravano, ovviamente, in qualche modo. Vi piacerà sapere che alla fine, una volta, si incontrarono: ma come finì il duello, questo non ve lo posso raccontare. Lo racconta però molto bene Stewart, che quando c’è da ricostruire la vita quotidiana di quei due è brillante e leggero il giusto, ma quando c’è da andare al sodo e spiegare cosa mai avessero in testa non si tira indietro e, devo dire, riesce a porgere anche al lettore non particolarmente attrezzato le chiavi di lettura di due sistemi filosofici che quanto a complessità non scherzavano affatto. Non dico che si capisca tutto: ma certo, al termine del libro, mi era più chiaro il pensiero di Spinoza che il bugiardino della Tachipirina.

Corriere 20.8.12
La vittoria postuma di Basaglia
Un innovatore calunniato che ha cambiato la psichiatria
di Corrado Stajano

Non è un'arida biografia questa scritta da Oreste Pivetta, Franco Basaglia, il dottore dei matti (Dalai editore, pp. 287, 17), ma un appassionato racconto, protagonista un intellettuale anomalo del Novecento che fino alla morte lottò con sereno coraggio in nome del progresso sociale e civile per la liberazione di uomini e donne chiusi in condizioni disumane nei manicomi. Non smise mai di credere nella forza del fare, motore del mondo, andò sempre avanti come poteva nonostante le denunce, i processi, gli oltraggi, gli ostacoli della burocrazia, del costume retrivo, della politica, anche quella di sinistra. Quando morì, il 29 agosto 1980, Maurizio Chierici, che lo conosceva bene, scrisse sulla terza pagina del «Corriere»: «Basaglia è morto, forse non ha più nemici».
Oreste Pivetta è un giornalista colto — ha diretto sull'«Unità» uno dei supplementi letterari più rimarchevoli degli ultimi decenni —, è autore, tra l'altro, di un bel libro, Candido Nord (Feltrinelli), saggio, narrazione, inchiesta su una cupa storia veneta degli anni Novanta. Ora racconta la vita di Basaglia, senza farsi condizionare dai confini della scienza, con empatia, ma con rigore, documentando tutto ciò che lo psichiatra ha fatto e scritto.
Fanno da guida alle pagine della biografia i famosi libri basagliani, L'istituzione negata e La maggioranza deviante, quest'ultimo firmato con Franca Ongaro, la moglie di Franco, donna di sottile intelligenza, e altri scritti pubblicati dalla vecchia Einaudi, allora all'avanguardia progressista nella ricerca del nuovo. Quei libri ebbero grande successo, soprattutto tra i giovani, ma Pivetta si è servito nella sua ricerca anche di altri materiali importanti per capire la lezione di Basaglia, come i testi delle conferenze fatte in Brasile.
Questa biografia è anche un libro di storia su quel che è successo in Italia soprattutto negli anni Settanta. Pivetta non dimentica mai il contesto storico-politico in cui lo psichiatra lavora. Sembrano finzioni i fervori di allora, nonostante quegli anni non siano stati di certo sereni, tra bombe, stragi, tentati colpi di Stato, il terrorismo, se si fa un paragone con il presente piatto, privo di idee e di speranze. Furono anni di riforme di grande rilievo, basta ricordare le leggi sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sulle Regioni, sull'obiezione di coscienza, sull'aborto. La legge 180, la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, viene approvata il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo l'assassinio di Aldo Moro.
Ma chi è Franco Basaglia? Nato nel 1924 in una grande famiglia veneziana, ha l'antifascismo e la ribellione nel sangue. Staffetta partigiana, durante la guerra di liberazione, tra Venezia e il Brenta, viene arrestato nel novembre 1944. La prigione, dove resta fino all'aprile 1945, è la sua prima esperienza di istituzione chiusa. Si laurea in medicina nel 1949, si specializza in malattie nervose e mentali, libero docente, lavora nella clinica universitaria di Padova fino al 1961, ma gli orizzonti della carriera accademica gli sembrano angusti e ambigui. Quello è per lui il tempo dello studio accanito. Basaglia, attento anche alle esperienze straniere, non è uno psichiatra selvaggio, come spesso, insultandolo, si è voluto far credere, privo di serietà scientifica. Ha invece tutte le carte in regola. In più, fin da giovane, lo attraggono Sartre, Jaspers, Heidegger, Minkowski, Merleau-Ponty, Musatti e poi Goffman, Ronald Laing, Franz Fanon, Marcuse, Foucault, i libri del Sessantotto di cui Franco Basaglia è padre e insieme figlio ardente.
Nel 1961 vince il concorso per la direzione dell'Ospedale psichiatrico di Gorizia. Comincia la grande avventura. Sembrano tempi lontanissimi. La città è grigia, militare, di là dalla stazione c'è un muro con la Jugoslavia, come quello di Berlino.
Basaglia in manicomio comincia col togliersi il camice, è uno come gli altri, il malato gli interessa più della malattia. Tratta i pazienti come persone, la sua funzione — la sua missione — è di ricreare, quando è possibile, e spesso lo è, la normalità, facendoli uscire così dalla malattia e dai guasti della prigionia. I suoi detrattori gli attribuiscono idee che non ha mai avuto. Non ha mai detto, per esempio, che la malattia mentale non esiste, è convinto che la mancanza di diritti la renda spesso più grave. Detesta le classificazioni, gli schemi, è perennemente alla ricerca della causa sociale del male, non gli interessano le astratte teorie. Ha una simpatia naturale, affascina anche i matti, capisce subito l'importanza dell'informazione, distrugge le bolge dantesche e le fosse dei serpenti, rompe le gerarchie, riesce a salvare il salvabile di molti. Fa sparire poco alla volta i letti e le cinghie di contenzione, le grate, i cancelli. Bisogna convincere il paziente che il medico è lì per dargli una mano. È necessario creare un rapporto di complicità, adoperare tutti gli strumenti che possono essere utili, soprattutto la parola e il libero lavoro. Nel manicomio le riunioni si susseguono alle riunioni, con i pazienti, con gli infermieri, con i medici, «per creare un terreno di confronto e di verifica reciproca».
Basaglia tocca con mano la miseria, l'antica fame. Uno dei suoi motti è un proverbio calabrese: «Chi non ha, non è». Quando fa uscire i pazienti liberi in città suscita reazioni furibonde. Accade anche qualche tragedia, tutto allora gli casca addosso, ma non demorde mai. Ricomincia da capo.
Dopo Gorizia, Trieste, Colorno. Per ridar l'anima a un vecchio indimenticato cavallo, un gruppo di artisti e di pazienti costruiscono nel manicomio San Giovanni di Trieste un cavallo con lo scheletro di legno, fatto di cartapesta e di gesso, color azzurro. Il 25 febbraio 1973 Marco Cavallo, si chiama così, va in città, fino a San Giusto trainato da un camion preceduto dalla banda, tra tamburi e bandiere, con i matti, i medici, gli infermieri, Basaglia in testa, in un lungo corteo. È una gran festa popolare, una nuova liberazione.
Vale per tutti più di trent'anni dopo? Si calcola che il 70-80 per cento dei pazienti, adesso che i manicomi non esistono più, siano tornati nelle proprie case o nelle piccole istituzioni famigliari di una decina di persone. Restano gli incurabili, un 20 per cento, grave problema, e i nuovi matti, figli della globalizzazione, della recessione, della crisi.
Ma si può dire che Franco Basaglia, con la sua grande passione, nonostante i conflitti, le polemiche, i tormenti, abbia vinto. Le sue idee hanno cominciato a entrare nel porto della coscienza comune.

La Stampa 20.8.12
Marx, uno spettro pop s’aggira in libreria
Tempi di crisi, ritorna il padre del “socialismo scientifico”: anche a fumetti, o in versione detective story, o come (tostissima) favola per i più piccini
di Massimiliano Panarari

CATECHISMO MARXISTA Vita e opere narrate ai bambini Alla fine il filosofo parte per gli Usa: lo attende Miss Wall Street Panic
DETECTIVE RADICAL Accompagnato dall’inseparabile Engels nell’Europa dell’800, tra lupi mannari e rivoluzionari

«Mi credono morto, e come spettro mi temono... »: Karl Marx (Treviri, 1818 -Londra, 1883) in versione spettro (in basso) nel libro rivolto ai bambini Il fantasma di Karl Marx, con i testi del filosofo della scienza francese Ronan de Calan e le illustrazioni di Donatien Mary, pubblicato in Italia da Isbn. Dallo stesso volume è tratto il disegno qui a destra, dove un operaio se la prende con la macchina che lo ha reso inutile
Super-Marx. Nei momenti difficili, si sa, alcuni di noi prediligono l’usato sicuro; ed è esattamente quanto sta avvenendo con uno dei pensatori fondamentali della modernità (non di rado travisato dai suoi stessi seguaci…) che la crisi economica infinita e movimenti come Occupy Wall Street hanno tirato fuori dalla naftalina, ripescandolo da certi circoli «esoterici» di aficionados e da talune cerchie nostalgiche, per restituirlo al proscenio e all’attenzione generale. Stiamo parlando, naturalmente, della riapparizione prepotente, all’interno del dibattito politico-culturale, di Karl Marx (1818-1883) quale antidoto da contrapporre a certi eccessi del neoliberismo.
Solo che ora passiamo, per così dire, per direttissima dai Grundrisse ai graphic novels e alle detective stories. Certo, l’austero (anche se più suo malgrado…) e prussianissimo teorico dell’Internazionale socialista e della dittatura del proletariato possedeva anche un indiscutibile talento narrativo e da romanziere gotico - basti pensare ai «fantasmi» che popolano il Manifesto del Partito comunista scritto con Engels nell’anno rivoluzionario per antonomasia, il 1848. Ma il ritorno di fiamma di questi ultimi mesi assume anche un sapore decisamente originale, quello di un Marx in salsa pop.
Il barbudo progenitore del materialismo storico e del «socialismo scientifico», infatti, spopola ora in versione fumettara e illustrata e in veste di protagonista di fiction. Punta di diamante di questo marxismo disegnato è un delizioso (ma politicamente tostissimo e assai radicale) libretto made in France e rivolto ai più piccini, con i testi del filosofo della scienza Ronan de Calan e le sfarzose illustrazioni di Donatien Mary. Il fantasma di Karl Marx (tr. it. Isbn, pp. 64, € 12,50) è una favola per bambini che narra in maniera frizzante – in un tripudio iconografico pieno di echi visivi della pittura russa (da Chagall a Malevic) e delle avanguardie storiche - biografia e opere del filosofo della lotta di classe e del plusvalore. Una sorta di catechismo rivoluzionario (ineccepibile dal punto di vista dottrinario) che vale anche come manuale «contro» di spiegazione del funzionamento dei principi e degli arcani dell’economia di mercato; e che si conclude con il protagonista, il finto fantasma di Marx (nascosto sotto un lenzuolo per celarsi agli occhi delle polizie segrete dell’intera Europa che gli danno la caccia), acerrimo avversario del sig. Das Kapital (industriale in cilindro e farfallino che fuma voluttuosi sigari), pronto, dopo avere incendiato il continente con la sua predicazione anticapitalista, a salpare alla volta degli Stati Uniti, dove ha un appuntamento con Miss Wall Street Panic.
Ma non c’è esclusivamente il «Marx per infanti». Nell’ambito di questa nouvelle vague neomarxiana pop, infatti, sono proprio le strisce e i balloon a farla da padrone, ed è tutto il comunismo novecentesco – e, in particolare, il gramscismo – a godere di rinnovata fortuna grazie ai graphic novels (complice, anche, il crescere, al loro interno, del filone consacrato a tematiche più engagées e politiche): da Nino mi chiamo (Feltrinelli) di Luca Paulesu a Cena con Gramsci di Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini (Becco Giallo), da Castro di Rheinard Kleist (Black Velvet) a Dimenticare Tiananmen di Davide Reviati (Becco Giallo), sino a Gli anni dello Sputnik di Baru (Coconino Press-Fandango) e a Que viva el Che Guevara di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (sempre per i tipi prolifici di Becco Giallo). E poi c’è il Marx detective radical che, accompagnato dall’inseparabile Friedrich Engels, si aggira per l’Europa del XIX secolo, tra lupi mannari delle foreste boeme e «incontri con uomini straordinari» (dal sempiterno antagonista Bakunin a Giuseppe Garibaldi), ritrovandosi impegnato nella risoluzione di una serie di crimini: ovvero il Marx & Engels, investigatori. Il filo rosso del delitto (Nuovi Equilibri, pp. 256, euro 16) di Dario Piccotti e Alvaro Torchio - già autori del precedente Marx ed Engels: indagini di classe (Rubbettino), in cui la «strana coppia» (genere Sherlock Holmes e John Watson) era alle prese, invece, con vampiri, sedute spiritiche e illusionisti.
Eccoci allora catapultati, potrebbe commentare qualcuno, «dalla tragedia alla farsa» e, nemesi o talpa del sottosuolo della storia che sia, gli spettri marxiani ricompaiono anche sotto sembianze (e lenzuoli) diversi da quelli che ci aspetteremmo, e da messaggeri del verbo del movimento operaio hanno finito col fare addirittura capolino nelle aule dell’ateneo romano di Confindustria. Proprio la Luiss (per iniziativa, tra gli altri, di Corrado Ocone) ha ospitato, in questi ultimi anni, un seminario permanente su Marx (arrivato, nel 2012, alla terza edizione, sul tema della «Ideologia»), che ha visto alternarsi pressoché tutti i principali studiosi italiani di filosofia politica i quali si sono occupati del pensatore di Treviri (da Francesco Saverio Trincia a Luciano Pellicani, da Sebastiano Maffettone a Stefano Petrucciani), e anche parecchi giovani, dottorandi e ricercatori, a testimonianza di questo ritorno di interesse; e, da poco, è anche arrivato in libreria il volume Leggere Marx oggi (a cura di Paolo Granata e Roberto Pierri, Rubbettino), che raccoglie una parte degli atti e delle relazioni di quelle giornate di studio.
Suona strano (o paradossale)? Non così tanto, a dire il vero. Perché, a ben guardare, tra gli «ammiratori» più entusiasti della distruzione creatrice e delle capacità trasformatrici della borghesia capitalista, c’è proprio, e decisamente, il nostro (come ha dimostrato anche la lettura social-liberale che ne ha dato, qualche anno fa, Jacques Attali nel suo Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo, edito da Fazi).

Corriere 21.8.12
Quel duello per l'onore del grande matematico
Le lettere di Galois alla figlia del medico «Ma era un civetta, e lui fu disgustato»
di Armando Torno

Parigi, 30 maggio 1832. È l'alba. In una zona periferica, sita in un luogo che non trova d'accordo le cronache, si tiene un duello. Le ragioni non si conoscono. Forse sono politiche, forse c'è di mezzo una donna. Comunque, lo scontro sarà alla pistola; distanza venticinque passi. Si battono Perscheux d'Herbinville ed Evariste Galois. Quest'ultimo avrà la peggio. La pallottola lo raggiunge al ventre. Cade. Nessuno gli reca aiuto. Eric T. Bell nell'opera dedicata a I grandi matematici (ancora disponibile la ristampa in edizione Bur) così descrive la scena: «Non era presente nessun medico e lo si lasciò sdraiato dov'era caduto. Alle nove un contadino che passava lo trasportò all'ospedale Cochin. Galois capì che stava per morire. Prima che l'inevitabile peritonite si dichiarasse, e ancora in pieno possesso delle sue facoltà, rifiutò l'intervento del sacerdote». Nelle prime ore del giorno seguente, il 31 maggio, la sua avventura terrena si chiude.
La leggenda si impadronirà di quel fatto. Innanzitutto perché il giovanissimo Evariste — vent'anni e qualche mese, era nato il 25 ottobre 1811 — aveva subito il carcere per motivi politici e poi si era fatto conoscere per la sua genialità matematica. Veniva respinto agli esami del Politecnico perché sapeva fare i calcoli a mente e gli esaminatori («uomini non degni di appuntargli le matite», li definisce Bell) volevano che li scrivesse con il gesso, alla lavagna. Fino a quando un giorno, dinanzi all'ottuso professore di turno, perse la pazienza: gli lanciò in faccia la cimosa, la striscia di panno arrotolata che allora si utilizzava per cancellare. Comunque, anche se lasciò solo qualche decina di pagine di appunti, che verranno ripresi e pubblicati nei decenni successivi, Galois resta uno dei padri della matematica moderna. Considerato il fondatore della teoria dei gruppi, stabilì le relazioni fondamentali tra questi e la teoria delle equazioni algebriche, sistematizzando il concetto di risolubilità.
Su questa fine si moltiplicheranno i dubbi, i punti di domanda, le leggende. Perché Galois si battè alla pistola? Alcuni interpretano l'avvenuto come un'operazione della polizia che desiderava liberarsi di una testa particolarmente calda; altri fanno il nome di Stephanie-Felice du Motel, figlia di un sanitario che curò il giovane durante l'epidemia di colera del 1832. Di certo con questa signorina Evariste si scambiò delle lettere, inoltre Stephanie appare diverse volte in margine a uno dei suoi manoscritti. È l'unico intrigo amoroso che si registri sul conto del matematico. Bell sostiene una tesi accettata dai più: «Rimase subito disgustato dall'amore, dalla ragazza e di se stesso». Non soltanto: la seduttrice era «una civetta di bassa condizione». Che dire? In una lettera all'amico Auguste Chevalier del 25 marzo 1832 Galois utilizza parole diverse da quelle di un innamorato: «Inebriarmi! Tutto al contrario! Io sono invece disgustato e disilluso di tutto, anche dell'amore e della gloria. In che maniera un mondo che detesto potrebbe solleticarmi?»
Comunque andarono le cose, quel mattino lo ritroviamo con una pistola in mano. Una leggenda, perché di questo si tratta, sostiene che egli abbia trascorso la notte precedente lo scontro scrivendo quanto aveva messo a punto sulla teoria dei gruppi. Ma quel che si può dire di certo è soltanto che in margine a un suo manoscritto annotò: «C'è qualcosa da completare in questa dimostrazione. Non ho tempo»; e in una lettera, considerata il suo testamento scientifico, ripetè: «Mi manca il tempo, e le mie idee non sono sufficientemente sviluppate in questo campo, che è immenso». Di Stephanie non possiamo aggiungere altro. Probabilmente fu lei a respingerlo o magari lui aveva in mente altro. Questo amore sfuggente potrebbe avere causato il duello: se così fosse, resterebbe l'unica cosa certa di tutta la storia. Anche il nome dello sfidante taluni lo mettono in dubbio, ma il finale non cambierebbe.
Evariste, abbandonato dall'avversario e dai padrini, sarà sotterrato — ricorda Bell — in una fossa comune del cimitero Sud. Le esequie, avvenute il 2 giugno, furono occasione per raduni e tumulti dei repubblicani. Pare che nessuna signorina in lacrime abbia accompagnato la semplice cassa.

Corriere 21.8.12
Croce e Gentile, amici della scienza
Il ritardo dell'Italia non è colpa dei due filosofi. Ma comincia negli anni Sessanta di Alessandra Tarquini

A cento anni dal quarto congresso internazionale di filosofia, che si svolse a Bologna nell'aprile del 1911, diversi giornali e siti web hanno ricordato che il convegno fu la sede del divorzio fra scienza e filosofia. La rottura si sarebbe consumata nel vivo dello scontro fra il presidente del convegno, il matematico Federigo Enriques, e Benedetto Croce: Enriques era convinto che la filosofia dovesse essere legata al progresso delle scienze; mentre Croce, secondo questa vulgata, era contrario al dialogo fra le discipline umanistiche e le scienze esatte. Da allora, se siamo diventati un Paese segnato da una mentalità retorica e antiscientifica, lo dobbiamo principalmente a Croce, e a Gentile, che dall'inizio del secolo esercitarono la loro egemonia sulla cultura italiana.
Ci sono buone ragioni per non accettare questa interpretazione: innanzitutto perché non è possibile definire Croce e Gentile avversari della cultura scientifica; in secondo luogo perché il neoidealismo non monopolizzò la cultura italiana del XX secolo dalle origini fino a giorni recenti; in terzo luogo perché nel nostro Paese la scienza conobbe i periodi più proficui proprio quando i filosofi neoidealisti dispiegarono la loro maggiore influenza.
Partiamo dal congresso di filosofia del 1911. L'unico filosofo idealista di una certa notorietà presente a Bologna fu appunto Croce, che, tornando a Napoli, accusò Enriques di essere del tutto estraneo al mondo della filosofia. La polemica era nata qualche anno prima: Enriques era un matematico importante, uno studioso impegnato nei problemi del suo tempo. Persuaso che la scienza dovesse influenzare ogni settore della cultura, aveva discusso con Croce. La questione che li divideva era questa: le scienze sono uno strumento della conoscenza?
Enriques ne era convinto, mentre Croce lo negava, poiché riteneva che la ricerca scientifica potesse approdare a una conoscenza puramente descrittiva delle cose. Appartenendo al mondo della conoscenza empirica, per definizione estranea alla metafisica, la scienza, secondo Croce, non avrebbe potuto produrre concetti «veri» nel senso che egli attribuiva alla verità. Il suo obiettivo non era quello di negare valore alla scienza, che nel pensiero crociano avrebbe svolto una funzione utile e necessaria al progresso dell'umanità. Croce si considerava piuttosto un severo avversario del positivismo e dell'idea che la metodologia di ricerca delle scienze esatte si potesse applicare alla conoscenza della realtà.
Molti studiosi aderirono al pensiero di Croce, perché in esso riconobbero una fede laica nell'umanità e nella storia, pensata come opera collettiva alla quale ciascun individuo collabora con le sue capacità. In questo senso è certamente possibile parlare di egemonia crociana riferendosi al periodo 1903-13, quando, senza alcun potere accademico o politico, il filosofo fu in grado di dare una risposta alle domande provenienti da molti intellettuali italiani. Si trattò di anni difficili per la scienza? A giudicare dai risultati ottenuti da Camillo Golgi e Guglielmo Marconi, da Vito Volterra e Ulisse Dini, verrebbe da dire il contrario.
Il ruolo di Croce cambiò con la guerra di Libia. Da allora Gentile cominciò ad avere una maggiore influenza sui giovani studiosi. Con l'avvento del fascismo, poi, impose una vera e propria egemonia sull'organizzazione della cultura, contando sul sostegno di Mussolini. Nominato ministro dell'Istruzione nel 1922, Gentile portò in Parlamento la riforma che istituì il liceo scientifico e rese il liceo classico una scuola d'élite: l'unica che consentiva l'iscrizione a tutte le facoltà universitarie, la più selettiva, quella dove si insegnavano la letteratura, la storia e la filosofia, il latino e il greco, e le scienze in misura poco rilevante.
Ciononostante, fra i tanti che fra il 1922 e il 1925 espressero dure critiche contro la riforma, gli scienziati non furono certo in prima fila. Nel 1925 Gentile fu nominato direttore scientifico dell'Enciclopedia Treccani: un'istituzione imponente, che diede alle scienze uno spazio considerevole. A dirigere la sezione dedicata alla matematica Gentile chiamò proprio Enriques, chiedendogli di coordinare il lavoro di una sessantina di studiosi, fra cui ricercatori del calibro di Ugo Amaldi, Guido Castelnuovo ed Enrico Fermi. Nel 1928 il filosofo divenne direttore della Scuola Normale di Pisa e nel 1941 fondò la «domus galileiana», un importante centro di studio per la storia della scienza.
Se, dunque, l'egemonia di Gentile sulla cultura italiana fu una realtà indiscutibile, in che modo egli influenzò la scienza italiana? A giudicare dagli enti creati dal regime, dobbiamo constatare che la presenza di un filosofo neoidealista ai vertici dell'organizzazione culturale fu un fatto decisamente positivo: nel 1923 nacque il Consiglio nazionale delle ricerche; nel 1926 l'Istituto centrale di statistica; sempre nel 1926 l'Accademia d'Italia, che negli anni Trenta assunse il patrimonio dell'Accademia dei Lincei; nel 1927 l'Istituto di storia delle scienze; nel 1934 l'Istituto di sanità pubblica e nel 1939 l'Istituto nazionale di alta matematica e quello di geofisica.
Dagli anni Quaranta e poi dal decennio successivo, il neoidealismo fu una corrente minoritaria fra gli intellettuali italiani che accolsero l'esistenzialismo, la fenomenologia, il marxismo e il neoilluminismo e negli anni Sessanta recepirono gli stimoli offerti dallo strutturalismo. Da allora l'antropologia, la ricerca sociale, la psicologia, la critica letteraria e, ovviamente, la linguistica divennero campi del sapere di una cultura che si emancipava dalle strettoie in cui l'avevano confinata Croce e Gentile.
Proprio in quel periodo iniziò il lento declino della scienza italiana, sempre più isolata, senza spazi di autonomia e alle prese con un ceto politico privo di strategie. Dalla metà degli anni Sessanta tutti i premi Nobel italiani assegnati a scienziati furono vinti da ricercatori nati in Italia, ma professionalmente cresciuti all'estero. Nello stesso tempo in cui l'Istituto superiore di sanità e il Comitato nazionale per l'energia nucleare furono coinvolti in vicende giudiziarie che ne misero in discussione la gestione, le industrie private, che avrebbero potuto impegnare il loro capitale nell'innovazione tecnologica, posero fine a una stagione di investimenti coraggiosi. A sua volta lo Stato investì sempre meno nei campi che avrebbero potuto promuovere ricerca industriale. Tutto questo accadeva nell'Italia degli anni Sessanta, quando Croce e Gentile erano lontani nel ricordo degli intellettuali.
Ma allora, se è così, invece di accusare dei ritardi della ricerca scientifica i filosofi neoidealisti, invece di attribuire le colpe al liceo classico voluto da Gentile, o alla concezione crociana della scienza, perché non ricordare che la ricerca scientifica coinvolge una grande quantità di soggetti, come le industrie, le università, gli enti e gli istituti di ricerca non universitari, la pubblica amministrazione, i governi? E cioè che si tratta di un complesso di attività e di istituzioni che riguarda la cultura politica, le istituzioni e soprattutto l'economia di un Paese?

Repubblica 21.8.12
“Un frate salvò i manoscritti di Husserl”

ROMA — E’ grazie all’opera di un frate che oggi si possono leggere 50 mila pagine di inediti del filosofo Edmund Husserl. La storia la racconta oggi
l’Osservatore Romano.
Padre Hermann Leo van Breda era a Friburgo nell’estate del 1938 per consultare i manoscritti inediti del filosofo morto da poco, sul quale stava preparando la sua tesi per il dottorato all’Università cattolica di Lovanio, in Belgio. Il francescano, comprendendo
il pericolo a cui i materiali erano
esposti in territorio tedesco, propose al proprio docente il trasferimento dell’intero lascito e della biblioteca del filosofo presso l’Istituto superiore di filosofia di Lovanio. Padre Van Breda seguì tutte le fasi del trasporto del “Nachlass” (Lascito) della biblioteca di Husserl, primo passo per l’istituzione del nuovo centro di ricerca a Lovanio, per i successivi decenni impegnato nella conservazione, la trascrizione e lo studio dell’opera del padre della fenomenologia.

La Stampa 21.8.12
Le ultime lettere di Nicola & Bart
Il 23 agosto 1927 gli anarchici Sacco e Vanzetti (in)giustiziati in America
Negli scritti dal carcere il dramma giudiziario e le loro motivazioni ideali
di Giorgio Boatti

CONTRO LA SENTENZA CAPITALE 50 milioni di firme in tutto il mondo, da Dewey a Zweig, da Gorkij a Russell a Croce

Nella foto in basso Bartolomeo Vanzetti (con i baffi) e Nicola Sacco. Il primo era nato a Villafalletto, in provincia di Cuneo, nel 1888; l’altro a Torremaggiore, nel Foggiano, nel 1891. Accusati di un duplice omicidio durante una rapina a Boston, furono condannati alla sedia elettrica, nonostante il vero colpevole (a sua volta giustiziato il 23 agosto 1927) li avesse scagionati. A lato una dimostrazione in favore dei due anarchici italiani
Sono trascorsi pochi minuti dalla mezzanotte, quando, il 23 agosto 1927, nel braccio della morte di Cherry Hill, le luci che illuminano gli ambienti claustrofobici del penitenziario di Stato del Massachusetts tremolano. Per alcuni interminabili secondi sembrano prossime a spegnersi. Poi si riprendono. Una, due, tre volte. È il segno che la sedia elettrica è all’opera: viene eseguita la sentenza contro gli anarchici Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, accusati di aver ucciso due persone nel corso di una rapina avvenuta, nella primavera del 1920, a South Braintree, nei dintorni di Boston.
Sin dall’arresto, il 5 maggio 1920, i due italiani si sono dichiarati innocenti. Contro la sentenza capitale che li colpisce sono state raccolte, in tutto il mondo, 50 milioni di firme. E figure di spicco di ogni schieramento, dentro e fuori gli Stati Uniti - da John Dewey a Romain Rolland, da Stefan Zweig a Maksim Gorkij, da Benedetto Croce a Bertrand Russell - hanno chiesto ripetutamente che il processo a loro carico venisse rifatto, acquisendo le rilevanti prove in grado di scagionarli. Non ultima la confessione del giovane pregiudicato portoghese Celestino Madeiros il terzo condannato a salire sulla sedia elettrica in quel 23 agosto - che arrestato nel novembre del 1925 ammette la partecipazione alla rapina di South Braintree escludendo però ogni coinvolgimento dei due italiani.
Pur battendosi sino all’ultimo per far prevalere la verità, Sacco e Vanzetti - bersaglio di fallaci riconoscimenti orchestrati dagli investigatori, ignorate le testimonianze a difesa raccolte tra i propri connazionali («state attenti ai dagoes che stanno compatti» dice l’accusatore Katzmann ai giurati, allertandoli alla diffidenza verso gli italiani, i «dagoes» appunto), irrisi i loro validi alibi - intuiscono di essere caduti in ostaggio di una durissima contrapposizione politica, etnica e di classe. Vittime sacrificali di un conflitto sociale che in quegli anni, negli Usa, sfocia spesso in episodi di raggelante violenza: dove all’impiego di squadre armate da parte delle aziende si risponde con altrettanta durezza da parte dei lavoratori, innestando un ciclo di repressioni che irridono ogni legalità e di provocazioni che calpestano ogni umanità. È il caso, a pochi giorni dall’incriminazione ufficiale di Sacco e Vanzetti, della bomba anarchica che esplode nel cuore di Wall Street provocando 33 morti e duecento feriti. Qualche mese prima un anarchico, Andrea Salsedo, amico dei due italiani, mentre era trattenuto illegalmente da agenti federali, è volato giù da una finestra del 14° piano di una sede dell’Fbi.
Di tutto questo, e soprattutto delle loro vite e della vicenda giudiziaria che li riguarda, parla, con grande forza documentaria e fulminante immediatezza, il bel libro che, curato da Lorenzo Tibaldo e con la prefazione di Furio Colombo, raccoglie di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti Lettere e scritti dal carcere (Claudiana, pp. 324, € 28). Pagina dopo pagina si fanno strada i due caratteri così diversi, pur nella vicenda che li accomuna. Calzolaio, sposato e padre di due figli, «Nick» Sacco, sensibile e innamorato della natura, originario di Torremaggiore nel Foggiano, dove è nato nel 1891. Pescivendolo - ma mille altri lavori precedenti, in una sorta di instancabile esperienza di lavoratore interinale ante litteram – «Bart» Vanzetti, di tre anni più anziano, autodidatta intelligente e di grande capacità comunicativa, catapultatodalla natia Villafalletto, nel Cuneese, prima a New York e poi a Boston.
La ricostruzione che emerge da queste pagine va ben al di là del pur illuminante e commovente epistolario nel quale si trovano gli spunti intensi ai quali ha poeticamente attinto Joan Baez, quando con Ennio Morricone ha creato la colonna sonora del film dedicato a Sacco e Vanzetti, nel 1971, da Giuliano Montaldo. Oltre alle lettere scritte nei sette anni di carcere vi si aggiungono autoritratti biografici, articoli rilevanti stesi per il vasto fronte di pubblicazioni e organizzazioni che si battono per la loro libertà, nonché testimonianze di coloro - molte donne, diversi personaggi della Boston illuminata - che saranno al loro fianco. Sino a quella sera d’agosto in cui, a Cherry Hill, le luci parvero spegnersi.

La Stampa 21.8.12
Per non restare analfabeti filosofici
Dai festival ai café philo , quel che sale è la richiesta di applicare il “sapere logico e teoretico” alla vita pubblica e individuale
di Franca D’Agostini

Il ragionamento sul significato e il ruolo della filosofia nella società contemporanea, che ha animato il dibattito estivo sulle pagine dei quotidiani, riaccendendo la disputa tra analitici e continentali, è stato aperto da Roberto Esposito che ha rilevato come al successo di pubblico dei festival filosofici non corrisponda un miglioramento nelle pratiche della vita individuale e associata

Su Repubblica del 17 agosto Roberto Esposito, intervenendo nel dibattito su «il significato della filosofia nella società contemporanea» (da lui stesso aperto con l’articolo «Filosofia prêt-à-porter», del 23 luglio), scrive tra l’altro: «Concordo con l’idea che si possano e si debbano cercare momenti di confronto tra filosofia analitica e filosofia continentale, come sostiene, con una punta di saccenteria, Franca D’Agostini sulla Stampa del 25 luglio». A parte l’accenno alla saccenteria (che ricorda la vecchia procedura di neutralizzazione degli argomenti di una donna: la si accusa di essere una bas bleu, o una femme savante, vale a dire: una maestrina saccente), la circostanza è davvero curiosa, perché nel mio articolo non ho sostenuto affatto che «si possano e si debbano cercare momenti di confronto tra filosofia analitica e filosofia continentale», anzi penso che allo stato simili «momenti di confronto» non siano una buona politica.
Forse vale la pena allora fissare le idee sulla discussione (sono intervenuti anche Paolo Legrenzi su Repubblica, e Marcello Veneziani sul Giornale ), che è un vecchio topos delle pagine culturali di agosto, ma che oggi, credo, potrebbe essere affrontata in modo nuovo.
La posizione di partenza di Esposito consta di due tesi: 1) esiste un bisogno oggettivo di filosofia, in ogni settore, dall’economia alla politica, dalla gestione dei beni pubblici alla riflessione sulla letteratura e sull’arte, dalla scienza all’esistenza individuale; 2) ciò che si sta facendo per rispondere a tale bisogno non sembra funzionare granché; dopo l’incontro di gran successo, dopo il festival, tutti se ne tornano a casa più o meno soddisfatti, ma senza aver cambiato di un nulla le loro cognizioni e le loro idee.
La prima è ineccepibile, e ormai ben nota. Anche la seconda credo sia abbastanza vera. Il punto in cui inizia il mio disaccordo è alla tesi successiva, che Esposito ribadisce nel suo secondo intervento: 3) il «fallimento» (o quasi) di cui dà notizia la tesi 2 si deve alla «tendenza della filosofia moderna a concentrarsi su questioni logiche e conoscitive», lasciando da parte «il mondo della vita». «È esattamente questa tendenza», scrive Esposito, «a impedire o almeno rallentare il transito dalla pratica filosofica a una reale trasformazione delle coscienze».
In breve: meno logica, meno epistemologia (teoria della conoscenza), e avremo finalmente la «trasformazione» richiesta.
Ora credo che questa tesi (Esposito è in buona compagnia nel sostenerla, visto che un’ampia tradizione, da Heidegger in avanti, la difende) sia semplicemente non vera. Non è vero che la filosofia moderna (se ha senso usare questa espressione) ha privilegiato in modo speciale le questioni logiche e conoscitive. Ma soprattutto non è vero che per far funzionare la filosofia in ambito pubblico bisogna trascurare tali questioni, anzi a mio avviso è vero il contrario: forse è proprio questa trascuratezza a rendere la filosofia pubblica inefficace.
Chiediamoci infatti: che cosa chiede, chi chiede «filosofia»? Probabilmente, non chiede (almeno direttamente) come trattare la suocera o venire a patti con il capufficio; non chiede neppure, esattamente, che cosa succederà dopola morte, e se esiste un’anima immortale (facilmente ha già un’idea del fatto che la filosofia non dà risposte certe a domande di questo tipo). Sembra anche abbastanza ovvio che non chieda notizie di teoria degli insiemi o di semantica formale. Piuttosto, direi: chi chiede filosofia forse chiede proprio filosofia, vale a dire l’applicazione del noioso «sapere logico e teoretico» alla vita pubblica e individuale. Questo genere di esercizio pubblico è stato inventato all’epoca della prima sperimentazione democratica greca, e resta, a mio avviso, la medicina fondamentale della democrazia in epoche di crisi della politica.
Ma certo per applicare logica e conoscenza al mondo della vita occorre avere un’idea chiara di come funzionino l’una e l’altra. E occorre anche sapere come farle funzionare in relazione all’arte, alla politica, alla vita individuale e collettiva.
La filosofia che oggi occupa i festival e i café philo sa fare questo? Credo di sì, ma (almeno in Italia) si muove con esitazione e incertezza, precisamente perché circolano resistenze di vario tipo: per esempio quelle di Esposito, o altre: per esempio l’idea che la filosofia pubblica non sia filosofia ma «divulgazione».
Nel mio intervento del 25 luglio concludevo un po’ bisbeticamente (per cui forse l’accusa di saccenteria non era del tutto immeritata) che il problema non è che la filosofia non ha legami con il mondo della vita, ma piuttosto che quel che si spaccia per «filosofia» a volte non lo è per nulla: con il che il bisogno pubblico di ripensare i fondamenti della politica, dell’economia, della vita individuale, resta insoddisfatto. Era una notazione antipatica, ne convengo, ma, fino a quando si scambiano gentilezze, sarà difficile capire come procedere per venire incontro a quella necessaria rialfabetizzazione filosofica della nostra cultura di cui noi tutti, filosofi e non, avvertiamo il bisogno. "DALL’ANTICA GRECIA"
"Una medicina fondamentale per la democrazia in epoche di crisi della politica"

Corriere 22.8.12
Pedofilia, assolto il Vaticano «I preti non sono dipendenti»
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — La Chiesa non è una multinazionale e un sacerdote non può essere considerato in quanto tale un «dipendente» della Santa Sede. La sentenza della Corte federale di Portland, nell'Oregon, è storica e destinata a lasciare il segno, nei processi contro preti e religiosi pedofili negli Stati Uniti. La questione non riguardava i crimini del reverendo pedofilo Andrew Ronan, peraltro morto nel '92. Il processo aveva tirato in ballo per la prima volta direttamente la Santa Sede e andava oltre la singola vicenda: il legale di una vittima, l'avvocato Jeff Anderson, puntava a dimostrare la responsabilità civile dei vertici del Vaticano, a cominciare dal Papa, con relativa possibilità di chiedere direttamente anche alla Santa Sede (si stima che le diocesi americane abbiano già pagato due miliardi di dollari) risarcimenti danni milionari pure in altre cause. Il giudice Michael Mosman, lunedì, ha invece stabilito che la Santa Sede non può essere considerata il «datore di lavoro» del sacerdote. Accuse archiviate, non funziona così: «Allora i cattolici, ovunque, potrebbero essere considerati impiegati della Santa Sede».
Una sentenza «importantissima», spiega l'avvocato della Santa Sede Jeffrey Lena: «Per la prima volta, di là dalle teorie, un giudice ha valutato i fatti e tutta la documentazione che ci avevano richiesto. Un religioso dipende dal suo ordine, e a maggior ragione un prete dal suo vescovo diocesano. Del resto nel 2009 il nono circuito d'appello federale aveva chiarito che ordine religioso e Santa Sede sono entità distinte. Così, se tecnicamente questa sentenza non fa ancora giurisprudenza perché siamo al primo grado, è assai difficile cambi in appello e intanto avrà l'effetto di stoppare cause simili».
La vicenda risale agli Anni Sessanta, padre Ronan era un religioso dei «Servi di Maria» che aveva cominciato a violentare ragazzini in Irlanda per poi proseguire a Chicago e Port land dopo essere stato trasferito dal suo ordine negli Usa. L'ordine aveva tenuto tutto coperto per 15 anni finché la Santa Sede era stata informata e aveva impiegato solo cinque settimane ad accettare la richiesta di riduzione allo stato laicale (che non equivale a un «licenziamento», ha chiarito il giudice). Nel 2002 una vittima denunciò gli abusi subiti da ragazzo e il caso giudiziario contro il Vaticano era arrivato fino alla Corte Suprema: nel giugno 2010 non si era pronunciata sulla richiesta di immunità della Santa Sede e aveva rinviato il fascicolo al tribunale dell'Oregon.
La sentenza si aggiunge a un'altra archiviazione, a febbraio di quest'anno, quella della causa che lo stesso avvocato Anderson intentò nel 2010 sul «caso Murphy», un pedofilo colpevole di centinaia di abusi dagli anni Cinquanta al '74: anche qui si volevano coinvolgere il Papa e i vertici della Santa Sede. La causa è finita in niente ma intanto aveva fatto il giro del mondo. Con un doppio paradosso: le accuse colpivano Joseph Ratzinger, il pontefice che più di ogni altro nella storia ha combattuto la pedofilia nel clero, e finivano col fare il gioco proprio di chi, nella Chiesa, avrebbe preferito parlare di «complotti» ed è rimasto spiazzato dalla linea di trasparenza e rigore imposta da Benedetto XVI.

La Stampa 22.8.12
L’universo e i suoi fratelli
Non è più infinito ed eterno, in compenso si è moltiplicato
Ma nell’ipotesi di un “multiverso” noi dove siamo?
Un libro del cosmologo John David Barrow
di Piero Bianucci

La mappa della radiazione cosmica tracciata con il satellite europeo Planck: ci riporta ad appena 370 mila anni dopo il Big Bang. Nella foto a lato il cosmologo inglese John David Barrow, 60 anni, professore di matematica all’Università di Cambridge, particolarmente interessato ai risvolti filosofici dei suoi studi, come si evince dal Libro degli universi che gli è appena stato tradotto da Mondadori
Ex pugile in corsa per il titolo mondiale, ex allenatore di pallacanestro, avvocato mai entrato in un tribunale, Edwin Hubble alla fine decise di fare l’astronomo. All’Osservatorio di Monte Wilson (California) passò centinaia di notti a fotografare galassie con quello che all’epoca era il più grande telescopio del mondo, e nel 1929, sulla rivista dell’Accademia delle scienze americana, annunciò che tutte le galassie (o quasi) si allontanano l’una dall’altra. Come se l’universo fosse nato da una immensa esplosione. Il «Big Bang», dirà vent’anni dopo, ironicamente, l’astrofisico inglese Fred Hoyle, che a quell’esplosione non credeva. In realtà anche Hubble parlò sempre di «apparente moto di allontanamento» delle galassie. Lasciò ai teorici la responsabilità di interpretare i fatti che le sue osservazioni andavano accumulando.
Dopo duemila anni di provinciale universo tolemaico con la Terra al centro, era arrivato Copernico a far girare il nostro pianeta intorno al Sole. Ma ancora Einstein, come Newton, pensava che l’universo fosse infinito ed eterno. Eppure nel 1916 aveva pubblicato la relatività generale creando la premessa perché si potesse immaginare una varietà di universi. Cosa che è puntualmente avvenuta. John David Barrow, 60 anni, professore di matematica all’Università di Cambridge, cosmologo che non ignora gli aspetti filosofici del suo mestiere, ce ne presenta il catalogo completo nel Libro degli universi (Mondadori, pp. 360, 20), magistrale racconto dello sforzo umano per rispondere a una domanda semplicissima: dove siamo?
La materia dice allo spazio come curvarsi e lo spazio dice alla materia come muoversi. Questa, in sintesi, è la relatività generale. Subito Einstein l’applicò a un suo modello di universo, ma per garantirne la stabilità dovette inventarsi una forza repulsiva, una specie di anti-gravità, che chiamò «costante cosmologica». Aggiustava le cose, però era un trucco, era un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto, tanto che ne parlò poi come del «più grave errore» della sua vita.
L’espansione si impose nei fatti: i lavori di Hubble la documentavano. Ma ancora prima De Sitter, Friedmann e il prete belga Georges Lemaître avevano elaborato modelli di universi in espansione sviluppando nuove soluzioni delle equazioni di Einstein. Per aggirare le enormi difficoltà del problema, erano modelli semplificati. Un modello disegnava un universo in perenne espansione. Un altro prima in espansione e poi in contrazione fino a un Big Crunch. Un altro ancora oscillava come un pendolo tra Big Bang e Big Crunch. Arrivarono poi l’universo frattale di Carl Charlier e quello di Paul Dirac ispirato da simmetrie numeriche tra macro e microcosmo (ma certe simmetrie sono solo illusorie: pensate a una spiaggia piena di ragazze a caccia di marito e di mariti a caccia di ragazze).
Seguirono universi ondulati, cilindrici, granulari, in rotazione (quello di Gödel, dove il tempo bidirezionale consente viaggi nel passato) o basati sulla continua creazione di materia, come quello immaginato da Hoyle, Bondi e Gold. Universi caldi e universi freddi. Omogenei e disomogenei. Ordinati e caotici. O anche un mix a piacere di questi modelli. Tutti, purtroppo, incompleti o insoddisfacenti.
A complicare tutto c’è il fatto che la relatività con cui si interpreta l’universo a grande scala non va d’accordo con la meccanica dei quanti necessaria per interpretare il mondo atomico. Inoltre, risalendo all’istante del Big Bang l’universo diventa infinitamente piccolo, denso e caldo. Un oggetto caratterizzato da questi tre infiniti per i fisici è una «singolarità». Cioè qualcosa di impossibile. Ma ne siamo proprio sicuri? Al Polo Nord - spiega Barrow - tutti i meridiani convergono in un punto che possiamo assimilare a una singolarità, ma chi si trova lì non nota nessuna stranezza...
Per fortuna le osservazioni a poco a poco hanno fissato dei vincoli alla fantasia dei cosmologi. Nel 1965 la scoperta della radiazione fossile lasciata dal Big Bang spazzò via la «creazione continua» di Hoyle. Il fatto che ci siano sei protoni ogni neutrone e un miliardo di fotoni ogni protone è un dato oggettivo che la teoria deve giustificare. Idem per l’uniformità che l’universo manifesta in qualsiasi direzione lo si guardi. L’uniformità fu spiegata da Guth con il suo modello inflattivo. Nel 1998 la scoperta che l’espansione dell’universo sta accelerando (qualcosa di simile alla costante cosmologica ripudiata da Einstein) ha riaperto i giochi. Premiata con il Nobel nel 2011, questa scoperta suggerisce l’esistenza di una energia oscura che da sola rappresenta il 72 per cento dell’universo, a cui si affiancano un 24 per cento di materia invisibile e quel misero 4 per cento a noi accessibile.
Gli ultimi sviluppi della cosmologia puntano in direzioni opposte. Da un lato sembra che l’universo sia qualcosa di unico, perfettamente progettato per rendere possibile la vita. È il «principio antropico». Dall’altro lato la Teoria M, sintesi di varie altre teorie, dalla supersimmetria alle superstringhe, consente l’esistenza di un numero incredibile di universi: 10 elevato alla 500, cifra vertiginosa se ricordiamo che tutti gli atomi dell’universo sono meno di 10 alla 80. C’è pure l’ipotesi inquietante del multiverso, una entità di ordine superiore che includerebbe una quantità imprecisata di universi tra loro indipendenti e governati da leggi fisiche differenti.
Conclude Barrow: «Copernico ci ha insegnato che la Terra non è al centro dell’universo. Oggi forse dovremo accettare l’idea che nemmeno il nostro universo sia al centro dell’universo». In fondo, la domanda «dove siamo? » dopo tanti sforzi ha solo fatto passare la parola universo dal singolare al plurale.

Corriere 23.8.12
«La poesia tedesca è nata ad Atene»
L’addio della Grecia sarebbe una sciagura
di Martin Walser

Io sono d'accordo soltanto con chi vuole un'Unione Europea che sia anche un'unione monetaria. L'euro esiste. Che oggi un Paese europeo debba separarsi dall'euro, che debba ricadere indietro all'epoca delle diverse valute, come una palla nel gioco della speculazione, è uno scenario orribile. Non è necessario pensarlo. Anni fa il politico conservatore svizzero Christoph Blocher affermò riguardo alla Svizzera che un'unione monetaria senza un'unione fiscale non poteva funzionare. Nel frattempo lo abbiamo imparato sulla pelle delle nostre finanze. Per fortuna si è osato fare l'unione monetaria, anche senza quella fiscale. E oggi, seppure in seconda battuta, si deve creare anche quest'ultima. Si tratta di un compito pratico possibile da realizzare, che non si risolve con una visione, bensì attraverso un'opera di legislazione da attuare passo dopo passo. E poi arriva l'esperto di turno e domanda se gli europei debbano davvero «livellare le loro differenze culturali» a causa di una valuta comune!
Un valuta comune, e poi anche libri contabili armonizzati, non livelleranno le differenze culturali e mentali, così come non è avvenuto rispetto alle diverse lingue più o meno forti dei singoli Paesi. L'Europa possiede, come nessun'altra parte della terra, un'elevata tradizione nell'imparare e nel comprendere superando i confini. Se c'è una cosa di cui non devono preoccuparsi gli economisti, sono le differenze culturali.
Abbiamo alle nostre spalle secoli, durante i quali si sono sviluppate delle idee e dei valori comuni. In un certo senso il momento dell'euro era arrivato. Non è calato dall'alto. Non mi fanno alcun effetto coloro che ci presentano il conto secondo cui non potevamo permetterci l'unione, perché … E poi segue un ragionamento puramente economicista. Se si critica di continuo perfino il trasferimento di risorse all'interno della Germania, è evidente che la solidarietà è un termine sconosciuto agli economisti.
A noi spettatori non rimane altro che concordare con la parata degli esperti oppure rifiutare quel che propongono. Ammetto che il garante della mia fiducia — abbastanza poco spettacolare — si chiama Schäuble.
Ma poiché si tratta niente di meno che dell'Europa, mi sia permesso di pensare quanto lontano noi addetti dei lavori della letteratura siamo arrivati da tempo. Che cosa è invece l'Europa per questi politici e questi esperti? Penso naturalmente a Shakespeare, all'Amleto e ad Ecuba. Questa è l'Europa!
Un esempio del 1799. Friedrich Hölderlin in una lettera al suo amico Neuffer progetta il piano di un «mensile poetico». I saggi in questa rivista devono contenere dei «tratti caratteristici dalla vita di poeti antichi e nuovi… Omero, Saffo, Eschilo, Sofocle, Orazio, Rousseau (come autore dell'Eloisa), Shakespeare …». Deve essere rappresentato ciò che «nelle loro opere vi è di peculiarmente bello»: «l'Iliade, in particolar modo il carattere di Achille, il Prometeo di Eschilo, l'Antigone, l'Edipo di Sofocle, le singole odi di Orazio …, Antonio e Cleopatra di Shakespeare (...)». Non faccio questa citazione perché ora la Grecia costituisce un problema dell'euro, ma perché dimostra quanto allora un poeta 24enne originario di un Paese chiamato Nürtingen vivesse insieme ad altri Paesi europei, quanto questo paese straniero fosse il suo paesaggio interiore, quanto appartenesse alla sua coscienza, alla sua identità. Ciò significa però anche che la letteratura è sempre stata europea. L'Europa è la nostra patria letteraria.
La lingua tedesca non ha mai più raggiunto una tale perfezione artistica come nelle odi di Hölderlin. E si trattava di una metrica che aveva imparato da Alceo e da Asclepiade. Con quanta naturalezza una poesia tedesca risuona in una metrica puramente greca:
Non è sacro il mio cuore, colmo della vita più bella,
da che io amo? Perché mi onoravate
più allora, quando ero più superbo
e selvaggio, ricco di parole e vuoto?
E nei suoi «Inni patriottici» celebra la sua grecità:
Cos'è che
alle antiche beate coste
m'incatena, ché le amo
ancor più della mia patria? …
mi trovo là, dove, come le pietre narrano, Apollo andava
in figura di re.
E nella poesia «La festa di pace», che è diventata per me la più imponente di tutte le poesie, risuona il verso «da quando siamo un dialogo e udiamo l'uno dell'altro».
Naturalmente queste stesse cose si leggono con attenzione innumerevoli volte. In questo modo si viene rapiti. Si è dunque preparati al Nietzsche più tardo, che alla fine si fa chiamare un «seguace del filosofo Dioniso».
Nietzsche ha concluso il suo libro giovanile e selvaggio sulla «Nascita della tragedia dallo spirito della musica», in cui racconta la nostra vita interiore come una lotta interminabile tra l'apollineo e il dionisiaco, in assoluto il libro sulla Grecia, con queste parole: «Quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello».
E Nietzsche, di tutti quelli che si sono espressi in lingua tedesca, è quello più europeo. Proprio nei «Ditirambi di Dioniso». Qui si eleva:
Urlare ancora una volta,
Urlare moralmente! …
L'ardore dell'europeo, fame vorace dell'europeo!
Ed ecco io sono già
Quale europeo,
Non posso far altrimenti, mi salvi Iddio!
Amen!
Già in «Umano, troppo umano» mette a punto il «concetto culturale di "Europa"», in cui include «solo quei popoli e parti di popoli che hanno il loro passato comune nella grecità, nella romanità, nell'ebraismo e nel cristianesimo». Che si tratti di morale, moda, filosofia, politica, religione o arte, qualsiasi cosa gli interessi, la coniuga sempre anche come un europeo. E allora arriva il male, ma anche ciò che illumina. (...)
Ovunque si guardi, la letteratura tedesca è più viva laddove è europea. Essa è tedesca sempre soltanto in un secondo momento, dopo aver fatto una scappatella. Chi di noi, grazie a Madame Bovary, non avrebbe vissuto ciò come un incoraggiamento a correre il rischio di sentire ciò che può essere sentito! Quanto fortemente si possa soffrire, ce l'ha mostrato Strindberg. Dell'incanto di un'infanzia evocata facciamo esperienza in Proust. E così via.
In questa disputa intorno alla giusta Europa che ci coinvolge tutti, mi fa buona impressione solo l'esperto che reagisce di volta in volta, ma sempre in direzione dell'Europa, e mai in senso opposto. Mi colpisce chi è prudente, ma saldo.
Perché i popoli ora in bilico non dovrebbero riuscire con il nostro aiuto in una propria evoluzione che ci conduca fuori dalla crisi? Quella crisi, arrivata da noi nel 2008 dall'America, non fu esemplarmente superata con la saggezza di tutti?
Non dobbiamo lasciare il comando alla pusillanimità travestita da competenza. Un passo indietro ora getterebbe per un numero inimmaginabile di anni la giusta Europa nella discarica della Storia. E poi per molto tempo l'Europa non sarebbe più pensabile. Ma è proprio quello che deve rimanere: pensabile! L'Europa val bene una messa. Abbiamo imparato anche questo. In Francia. Quello che siamo, lo abbiamo appreso. L'Europa è anche una comunità di apprendimento.
Hölderlin afferma infatti: «… e i peccati del mondo, l'incomprensibilità / delle conoscenze, quando ciò che permane sopravanza l'affannarsi…» Ma afferma anche: «Laddove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva».
Almeno questo deve esser detto. Perché la giusta Europa non è un club d'élite né una confederazione di Stati governata da una super autorità. L'Europa giusta è una comunità di apprendimento, fondata sulla libera adesione e sull'autodeterminazione.
Ciò è quanto l'Europa ha da offrire al mondo.

Repubblica 24.8.12
Applicare la logica al discorso pubblico
Due saggi rilanciano l’importanza di questa disciplina
di Franca D’Agostini

«Il governo aumenta l’Iva per non alzare le tasse», titolava qualche tempo fa un sito web. Ma l’Iva è una tassa, o no? «Il politico x, di destra, ha rubato, d’accordo, ma anche il politico y, di sinistra, ha rubato! » (è il classico tu quoque, argomento-base del berlusconismo): ma allora x non è un ladro, dal momento che anche y lo è? Due ladri sono meno di uno? Sono esempi ben noti. Tutti conoscono ormai le clamorose e strategiche insensatezze che hanno dominato il dibattito pubblico italiano recente. Anche i paesi di lingua inglese però non se la cavano molto bene, come dimostra Julian Baggini, in Do They Think You’re Stupid? (Granta, 2008), vasto repertorio delle assurdità proferite da politici e personaggi pubblici inglesi e americani. Alcuni commentano queste circostanze citando Tony Judt, che in Guasto è il mondo (Laterza) registrava il declino mondiale delle leadership. Altri rilanciano il classico: it’s democracy, baby! ; vale a dire: se prevale il peggio, è perché è un peggio persuasivo, accattivante, affascinante, e non vale lamentarsi. Ma queste teorie forse mancano il punto principale, e il più semplice, ossia il fatto che la formidabile mancanza di timidezza logica (inconsapevole o strategica) di alcuni discorsi pubblici ha lo scopo di rivolgersi a qualcuno. Ed è solo supponendo in questo qualcuno una correlativa formidabile ignoranza, o distrazione, o disaffezione alle questioni logiche, che si può sperare di far passare argomenti insensati o zoppicanti. Chi insegna a vedere l’insensato, e anzitutto trasmette la «sensibilità alle contraddizioni», è quella disciplina o area di studio che la tradizione chiama “logica”. Ma già soltanto il termine “logica” specie nella nostra cultura, suscita perplessità. Questa resistenza si è in parte attenuata, per varie ragioni. Ma l’assetto culturale a cui ha dato forma è ancora attivo. Ancora oggi la logica è una disciplina enormemente trascurata. Una base di logica viene insegnata alle superiori come voce della matematica, dunque in modo irrelato. Il critical thinking, una specie di logica informale elementare piuttosto diffusa nei paesi di lingua inglese (i riscontri di Baggini ci dicono però che non funziona molto bene), inizia ad avere diffusione anche da noi, ma in modo incerto e discontinuo. In senso stretto, i corsi di logica sono di livello universitario, e riguardano solo gli studenti di matematica e di filosofia (non tutti). La ricetta dunque sembrerebbe essere semplice: si estenda e si potenzi l’insegnamento della logica, e avremo un risanamento istantaneo del dibattito pubblico. Ma qui, proprio qui, incominciano altre resistenze. E la prima e più importante credo sia la seguente: siamo sicuri che “la logica”, così come oggi viene normalmente insegnata, sia davvero in grado di svolgere questo delicato e complesso compito di edificazione del linguaggio comune? A occhio la risposta è semplicemente: no. Non è affatto chiaro perché mai le ingegnose dimostrazioni metalogiche che popolano i manuali tradizionali dovrebbero e potrebbero avere ricadute interessanti per la vita individuale e collettiva. È chiaro che non si tratta solo o semplicemente di potenziare quel che di fatto c’è, ma occorrono riforme e riconsiderazioni dei contenuti e dei metodi di insegnamento della logica. E due sarebbero le prime operazioni necessarie, per portare la logica alla sua efficacia pubblica: riallacciare più strettamente i suoi legami con l’uso comune del linguaggio, e con lo studio dell’argomentazione; far valere la continuità tra la logica «classica», con il suo apparato tradizionale di regole, e le logiche «non classiche», che spiegano come ragionare anche quando, per esempio, i famosi principi di non contraddizione e del terzo escluso non sembrano funzionare. La buona notizia è che queste tesi iniziano ad essere condivise. In particolare due manuali: Sweet Reason. A Field Guide to Modern Logic, di James Henle, Jay Garfield e Thomas Tymoczko (Blackwell), e il libretto di Logicadi Graham Priest, la cui prima pubblicazione è del 2000, e che oggi viene finalmente tradotto dalla casa editrice Codice, sono un buon indizio di questa svolta. Sweet Reason offre tutto quel che è essenziale per ambientarsi con i formalismi e le tecniche della logica tradizionale, ma dà della logica un’immagine aperta e problematica, esattamente nelle due direzioni indicate: approfondendo i rapporti con il ragionamento comune, e facendo vedere bene come le regole logiche a volte abbiano applicazioni insidiose e violazioni inaspettate. Quanto alla piccola Logica di Graham Priest, meriterebbe un discorso a parte, vista l’estrema importanza del suo autore, e il rumoroso silenzio dell’editoria italiana su di lui (in effetti è questo il suo primo libro tradotto qui). Ma basti per ora considerare che una rapida lettura di questo agile volumetto potrebbe portare all’istantanea smentita di tutti i luoghi comuni sulla venefica astrattezza e irrilevanza del lavoro logico. Priest è un logico «paraconsistente, ossia ritiene che alcune contraddizioni siano accettabili: ma — si noti — non quelle in virtù delle quali due ladri sono meno di uno e aumentando una tassa si riesce mirabilmente a non alzare le tasse. Dunque ecco la «sensibilità alle contraddizioni»: saperle distinguere, evitando di tollerare quelle inaccettabili, mentre ci si sforza inutilmente di eliminare quelle inevitabili. La discussione naturalmente è aperta, ma inizia a delinearsi della logica l’immagine di un canone aperto e duttile, legato alla realtà dei nostri confronti discussivi. Sarebbe utile che i filosofi, specie quelli coltivati all’avversione idealistica e heideggeriana per l’arte del logos, fossero disposti a riconsiderare il problema, e se credono, a rinegoziare il significato stesso del termine “logica”, perché le antiche resistenze siano messe da parte.

Corriere 23.8.12
Pisacane patriota e rivoluzionario
di Arturo Colombo

Molti di noi Carlo Pisacane l'hanno incontrato sui banchi di scuola, quando ci hanno fatto leggere La spigolatrice di Sapri, una poesia di Luigi Mercantini destinata a rimanere impressa nella memoria di intere generazioni di allievi: uno dei versi più ad effetto, per esempio, lo raffigurava come un giovane eroe «con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro».
Ma la figura e l'opera di Pisacane hanno avuto parecchi studiosi, fra i quali Luciano Russi, scomparso troppo presto (1944-2009), di cui esce adesso il volume Studi su Carlo Pisacane, a cura di Adolfo Noto (pubblicato dall'editore Rubbettino, pp. 276, € 18): una raccolta di undici interventi, pubblicati dall'autore fra il 1977 e il 2005, oltre alla sua opera più importante, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario (Il Saggiatore, 1982).
Questi «studi» danno subito la misura del rigore storiografico, e altresì della ricchezza di interessi, che hanno permesso a Luciano Russi di collocare Carlo Pisacane «entro l'orizzonte della cultura politica nazionale», come sottolinea Leonardo La Puma nella premessa.
Lo dimostrano le pagine in cui Russi mette a confronto Carlo Pisacane e Mauro Macchi, prendendo spunto dal ricordo che proprio il secondo, Macchi appunto, aveva voluto farne sul settimanale torinese «La Ragione» nel 1857, all'indomani della tragica avventura di Sapri.
Fra l'estate del 1851 e la primavera del 1855, entrambi si erano trovati d'accordo su «almeno due fra le questioni più decisive per le sorti della sinistra democratica e rivoluzionaria: la critica antimazziniana e la polemica antigiobertiana».
Tuttavia, è nel rapporto «guerra-pace» che si sostanzia la differenza fra i due, essendo Carlo Pisacane pronto a riconoscere che «la soluzione della questione nazionale non può non passare attraverso il momento della rottura anche militare dello status quo». Con il risultato che il «distacco» trova il suo culmine nell'aprile del '57, quando Carlo Pisacane «è intento nelle ultime, difficili fasi organizzative della spedizione (preso com'è dal sogno di una possibilità insurrezionale)», mentre Mauro Macchi «si trasferisce a Torino, città sempre più privilegiata da moderati, costituzionalisti, monarchici, repubblicani in crisi».
Non meno limpida è l'analisi delle coordinate teoriche che contrappongono Carlo Pisacane e Giuseppe Montanelli: entrambi in aperto dissenso con il mazzinianesimo «prima, durante e dopo il '48», e tuttavia portatori di una diversa concezione della democrazia, essendo Giuseppe Montanelli un sostenitore della «democrazia progressiva», mentre Carlo Pisacane è un assertore della «democrazia rivoluzionaria», perché «convinto della necessità di un radicale ribaltamento dell'ordine costituito».
Ma Luciano Russi nel suo volume non si sofferma soltanto su questo tipo di confronti; non meno eloquente è l'analisi che l'autore dedica alla «critica della democrazia», o meglio della «rivoluzione democratica», dopo il fallimento del biennio compreso fra il 1848 e il 1849.
A Carlo Pisacane non interessava tener conto dei «diversi stadi dello sviluppo sociale», come ritenevano indispensabile quanti puntavano soprattutto sulle zone più progredite del Settentrione. E la sintesi che ne fa Luciano Russi mi pare esemplare, quando conclude che «azzerata ogni valenza positiva al modello capitalistico-borghese, diventa conseguente far suonare la diana della rivoluzione al Sud prima che al Nord, nelle campagne prima che nei centri urbani, tra i ceti rurali prima che fra la classe operaia, nel Cilento prima che in Lombardia, a Sapri prima che a Torino».
Tuttavia, anche dopo, il ricorso alla rivoluzione rimarrà un falso rimedio per tentare di risolvere il complesso avvenire dell'Italia.


Corriere 25.7.12
Amore e morte su un ponte di Roma
La ballata di Peggy e Peter I due giovani vagabondi sopraffatti dal loro amore
di Emanuele Trevi

C'è stato un tempo in cui gli uomini erano in grado di trasformare in ballate e leggende le tragedie che più li toccavano. La sventura, in quelle creazioni, rimaneva ciò che è sempre stata: qualcosa che ci sovrasta con la sua ingiustizia, e ci ricorda che l'irreparabile è la sostanza stessa della vita.
Ma una profonda saggezza affiorava in parole semplici e potenti, permeava le melodie. Annegata nelle acque di un fiume, o riversa a terra per mano di un assassino, la vittima del Fato rivelava una sua insospettabile natura di simbolo. La stessa unicità del suo destino era una fonte di prodigi. E tutto ciò che la ragione non potrà mai spiegare, e che nessuna consolazione potrà rendere meno terribile, ci penseranno il cuore e le sue emozioni a custodirlo, senza più bisogno di giudicarlo.
Credo che la storia di Peggy e Peter, i due vagabondi di Ponte Garibaldi, meriterebbe uno di quei grandi poeti del passato, uno spirito romantico che la raccontasse come fosse uno specchio magico, capace di rivelare qualcosa dei lineamenti di chiunque lo guardi. Forse Fabrizio De André, con il suo purissimo senso poetico dell'umano, sarebbe stato all'altezza del compito. Affannate ed imprecise ancora prima d'essere pronunciate, le parole di tutti i giorni servono a poco.
Già definire i due ragazzi «punkabbestia» mi sembra una mancanza di delicatezza, un modo di far transitare nella generalità e nell'astrazione sociologica due individui diversi da ogni altro. Qualcosa di più di due individui: una coppia, questo bizzarro animale a due teste tenuto insieme dalla più potente e insieme dalla più inaffidabile delle materie, l'amore.
Quando ho visto sul giornale la foto struggente di Peter che abbraccia il corpo esanime di Peggy, o l'altra in cui si china a deporre un fiore sul luogo dove è morta cadendo dal parapetto del ponte, ho avuto un tuffo al cuore. Abito a poche decine di metri dal luogo in cui si è consumata la tragedia, e quei due, durante queste notti di agosto, li avevo notati. La fotografia di Peter, con le lunghe treccine biondastre e i lobi dell'orecchio dilatati, mi ha tolto ogni dubbio. Senza troppa speranza, visti i tempi che corrono, chiedevano soldi ai passanti dalle parti di via Arenula, in certe stradine sempre deserte e silenziose che fanno uno strano contrasto con le luci e la folla di Campo de' Fiori.
Mi avevano colpito perché mi sembravano allegri, nonostante la loro scodella fosse vuota di monete, e innamorati. E anche perché i loro simili, gli altri vagabondi con i loro cani, di notte si riversano in massa a Trastevere, dall'altra parte del fiume. Mi avevano ispirato simpatia proprio perché stavano lontani dal branco, bastando a se stessi — così pensavo mentre me ne tornavo a casa —, capaci di guardarsi alle spalle l'un l'altro.
Se avessi il talento di un De André, la prima strofa della ballata di Peggy e Peter la dedicherei al loro accampamento, sotto la campata del grande ponte. L'argine del fiume, da quella parte, è desolato e pieno di esistenze derelitte, mentre sul lato opposto brillano innumerevoli le luci di ristoranti e negozi, aperti tutta l'estate. Di fronte all'accampamento, c'è la punta dell'Isola Tiberina, e per qualche lavoro di manutenzione, il livello del fiume in questi giorni è bassissimo. L'atmosfera è desolata come nei tratti urbani di certi grandi fiumi asiatici. Nella rigogliosa vegetazione spontanea che orla il corso del fiume regnano incontrastati enormi ratti. Dieci metri più un su, all'ombra degli immensi platani, Roma si mostra nel suo aspetto più signorile, da grande città europea, con la mole della Sinagoga a fare da chioccia ai palazzi che si allineano sul viale trafficato.
La seconda strofa della ballata dovrebbe parlare di loro, Peggy e Peter, che volevano sposarsi ma volevano anche che a officiare il matrimonio fosse uno dei loro cani. La persona che si erano scelti era la conseguenza più importante della vita che si erano scelti. Se l'ombra che minacciava la loro vita era visibile a qualcuno, probabilmente non se ne erano accorti. Ma è proprio di quest'ombra che la ballata dovrebbe prima o poi parlare. Non sapremo mai come sono andate veramente le cose. Alla base di tutto questo potrebbe esserci stato un litigio. Un litigio, in una coppia, è una cosa che sembra normale. Nella stragrande maggioranza, nella quasi totalità dei casi, i motivi sono inutili, e si continua solo perché non si sa come smettere. Nessuno è mai migliorato a causa di un litigio, nessuno ha mai capito qualcosa in più dell'altro. Sembra un rito innocente, la premessa di nuove armonie, ma se consideriamo la cosa nella sua essenza, il litigio tra persone che si amano è una specie di possessione diabolica. Anche nelle civiltà più perfezionate, anche dove è esclusa ogni forma di violenza fisica, litigando noi non facciamo che rivelare all'altro il lato oscuro della luna, la parte ferina che è in noi. Come se fossimo costretti a ricordarci a vicenda che la persona più pericolosa, per noi, è pur sempre quella che amiamo, perché è in grado di infliggerci le ferite più profonde.
Ma soprattutto, la discordia degli amanti indebolisce quelle difese, già di per sé poverissime, che opponiamo alla malasorte. È come se, lacerando momentaneamente ciò che era così unito, lasciassimo una porta aperta a tutto ciò che può distruggerci. Il più delle volte ce la caviamo con poco, ma nel caso di Peggy e Peter la tragedia si è consumata fino in fondo. Forse ubriaca, forse solo insonnolita, lei perde l'equilibrio, cade giù dal ponte, muore sul colpo. E l'ultima strofa della ballata è tutta per Peter, rimasto solo. Nella mente sconvolta, si affaccia un'idea assurda: che sia possibile raggiungere Peggy nel mondo delle ombre ripetendo identica la sua stessa morte, quella caduta nel vuoto. È una follia, ma credo che bisogna imparare a rispettarla, a metterla a confronto con quanto c'è in noi di più intimo e segreto.

Repubblica 25.8.12
La ricerca dell’assoluto che chiamiamo “passione”
Un saggio di Maria Bettetini e le metamorfosi del sentimento viste dai filosofi
di Maurizio Ferraris

“Assomiglia a una coppia di pigiami o al salame dove non c’è da bere? Per l’odore può ricordare i lama o avrà un profumo consolante? ”, si chiedeva Auden in La verità, vi prego, sull’amore. Cercando di rispondere a questo interrogativo, Maria Bettetini in Quattro modi dell’amore (Laterza) disseziona l’amicizia, la passione, la distruzione, l’inganno attraverso quasi duecento testi, intessuti un po’ come gli Stromata (i tappeti) di Clemente Alessandrino, per render conto del come la cultura occidentale ha dato forma a quel non ovvio rapporto tra le persone che è l’amore. Con una escursione cronologica che va dall’antichità (l’autrice è classicista di formazione) sino al contemporaneo anche pop si disegna una storia e una geografia che passa da Lo specchio della carità di Aelredo di Rielvaux a I giochi e gli uomini di Roger Caillois, dall’Enciclopediadi Hegel al Principe di Machiavelli, dall’Iliade a Le tigri di Mompracem. Il primo dato che emerge è proprio di tipo geografico. Come emerge con chiarez- za da queste pagine dotte e ben scritte, l’amore costituisce, insieme, l’elemento più naturale che ci sia negli esseri umani (perché alla sua origine remota c’è il mandato della continuazione della specie) e quanto di più intensamente culturalizzato si riesca a immaginare. Lo “spirito europeo” di cui parlava Husserl, e che permeava, oltre al vecchio continente, anche l’America e “i Dominion inglesi”, è anche uno spirito che dà una veste altamente stilizzata alle storie d’amore, come già suggeriva Paul Veyne in La poesia, l’amore, l’occidente. Sino a non molto tempo fa sarebbe apparso a dir poco problematico trasporre gli schemi dell’amore hollywoodiano e proustiano fra gli aborigeni australiani o nell’Africa sub-sahariana, e il fatto che, con la globalizzazione, la trasposizione diventi possibile, dimostra quanto contino gli schemi culturali in un legame umano che è una specie di letteratura tradotta in pratica (è nato prima l’amore o la letteratura? Ecco una domanda circolare a cui è difficile rispondere). Ma c’è un secondo aspetto rilevante, ed è per l’appunto quello storico. L’amore si evolve, questo è banale. Ma ciò che, a mio parere, non è banale, è che questa evoluzione non va (come dovrebbe secondo i principi della filosofia della storia di Hegel) verso una maggiore trasparenza e razionalità ma, proprio al contrario, verso la ricerca di un assoluto antirazionale. Il Simposio di Platone è un miracolo di compostezza rispetto alle festicciole dei libertini di Sade, ma questi ultimi sono dei mostri di razionalità rispetto a Werther. Il quale però, uccidendosi per la donna amata, è ancora relativamente sensato in confronto a Madame Bovary, che si uccide per dei fantasmi letterari, e a Swann che, nella Recherche, si confessa “Tutta questa sofferenza, tutto questo dolore, li ho vissuti per una donna che non era nemmeno il mio tipo”. Ora, c’è un punto su cui vorrei portare l’attenzione, e che non riguarda l’amore, ma il mondo in cui viviamo, l’ontologia della nostra attualità. Una delle credenze più infondate del nostro tempo è quella secondo cui viviamo in un mondo razionalizzato e secolarizzato, in una gabbia d’acciaio senza assoluti. Non credo che sia così. Se Bauman, citato conclusivamente da Bettetini, parla di amore liquido, di una società disinvestita e disintensificata, mi chiedo se la verità non sia l’esatto opposto. Più che in qualunque altra epoca precedente, abbiamo a che fare con un imperativo passionale (non necessariamente autentico o sincero, ma il punto non è questo), in cui l’amore è visto come l’attuazione di un assoluto da perseguirsi a qualsiasi costo, come qualcosa per cui vale la pena di rinunciare a tutto. Che ad esempio, con una vicenda degna di Fitzgerald, un re d’Inghilterra abbia potuto rinunciare al trono per sposare una divorziata è qualcosa di strettamente inconcepibile ai tempi (apparentemente così romantici) delle dame, dei menestrelli e dell’amor cortese. Alla faccia della “gabbia d’acciaio” di cui saremmo prigionieri.

Repubblica 26.8.12
Linee che portano alla fine del mondo
Cronos. L’immagine del tempo
di Paolo Mauri

Padri della Chiesa, gesuiti, biblisti, millenaristi, indovini E poi geografi, cartografi, poeti, artisti, dandy inglesi Per tutti un´unica ossessione: raffigurare lo scorrere della storia dalla Genesi all´Apocalisse passando per diluvi universali, moti celesti e avventi di profeti Ora un libro raccoglie questi tentativi

«Il tempo cosa strana», canta la Marescialla nel Cavaliere della rosa di Hugo von Hofmannsthal messo in musica da Strauss e poi aggiunge: «Talvolta io l´odo che scorre - senza sosta. / Talvolta mi alzo nel mezzo della notte, / e arresto tutti gli orologi, tutti». Traggo la citazione dal bel saggio di Harald Weinrich, Il tempo stringe (Il Mulino) che risfoglio dopo aver letto Cartografie del tempo di Daniel Rosenberg e Anthony Grafton in uscita da Einaudi col sottotitolo Una storia della linea del tempo. Da una parte il tempo pensato a misura d´uomo da Aristotele a Heidegger, dall´altra il tempo inteso come succedersi di eventi e raffigurato da una linea che avanza verso l´ignoto o, secondo molti, verso la catastrofe finale, l´Apocalisse biblica coniugata in mille modi dai millenaristi, fino all´esempio recente del calendario Maya. Cartografie del tempo è un insolito e fascinoso libro da leggere ma anche, e forse soprattutto, un libro da guardare, poiché per la prima volta racconta la storia delle rappresentazioni del tempo, attraverso più o meno ingegnosi raggruppamenti di date e di fatti disposti in modo da facilitarne la lettura e l´apprendimento. «La metafora lineare», scrivono gli autori, «è onnipresente anche nelle più banali e quotidiane rappresentazioni del tempo: almanacchi, calendari, diagrammi…» Saul Steinberg disegnò nel 1970 una specie di calendario dal 1932 al 1970. Molti popoli hanno escogitato particolari meccanismi per raccontare il succedersi degli eventi, ancorandoli a un dato certo. Ebrei e Persiani usavano le liste dei re, i Greci le tavole delle Olimpiadi, i Romani le liste dei consoli. «La Storia è il corpo», scrisse Alexander Ross, «ma la Cronologia è l´anima della scienza storica». Con l´evolversi della geografia era inevitabile che la descrizione degli eventi fosse distribuita attraverso cartografie sempre più precise, unendo luoghi e fatti che li riguardavano. E con l´evolversi delle idee sulla storia, anche le rappresentazioni mutarono: nel Settecento, quando si andava affermando il concetto di una storia progressiva, lo scienziato e teologo inglese Joseph Priestley pubblicò il suo A Chart of Biography che in qualche modo metteva in forse la linearità del tempo, considerata un semplice ausilio meccanico per la conoscenza della storia, e non un´immagine della storia stessa. In quegli stessi anni Laurence Sterne pubblicava il suo stravagante capolavoro, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo ricco di diagrammi che illustrano la storia della vita del protagonista: una storia che non si può ridurre a una traccia lineare visto che vive di continue digressioni. Priestley e Sterne rappresentano dunque una svolta critica circa la raffigurazione del tempo, ma per moltissimi secoli i problemi erano stati di ben diverso genere. Fu il teologo del IV secolo Eusebio di Cesarea a comporre la Cronaca che doveva servire da modello a tanti altri, che la migliorarono e la integrarono, ma restando abbastanza fedeli all´originale. Eusebio aveva letto la Bibbia in greco e aveva utilizzato poi la Bibbia multilingue approntata da Origene, costruita con colonne diverse che permettevano un confronto diretto tra la Bibbia degli ebrei greci e quella degli ebrei palestinesi, confronto che rivelava numerose e spesso insospettate diversità. Eusebio mise in colonna raffrontandole le storie degli Assiri, Egizi, Persiani, Greci e Romani. I popoli ascendevano e cadevano, sembrava voler dire Eusebio, ma Roma aveva unificato il mondo giusto in tempo per l´arrivo del Messia. Due secoli dopo Cassiodoro descrisse la Cronaca come «un´immagine della storia». San Girolamo la tradusse in latino e infiniti copisti la tramandarono. Nella Cronaca c´era, per quanto possibile, la realtà della storia, ma anche una visione provvidenziale del mondo, che ancorava l´evoluzione degli eventi al dettato biblico. Per molto tempo la preoccupazione dei compilatori di mappe storiche fu quella di identificare un punto di inizio e talvolta, come abbiamo già accennato, anche un punto finale. L´inizio veniva spesso legato al diluvio universale, evento che annulla l´umanità esistente, salvo la famiglia di Noè e fa ripartire la storia. Con qualche problema che venne a lungo dibattuto: quanto tempo durò la ripopolazione del mondo? Comunque la data del diluvio venne fissata intorno al Quattromila avanti Cristo, ma era un arbitrio che più tardi causò non pochi imbarazzi. Venne fuori, per esempio, che gli Egiziani e i Cinesi avevano una storia molto più antica del diluvio stesso, come potevano testimoniare, specie dalla Cina, gli stessi padri gesuiti. Che il Diluvio fosse dunque un evento locale, relativo soltanto alla storia degli ebrei? Inoltre il progredire degli studi astronomici metteva in luce come nessun evento celeste si potesse connettere con il diluvio o con la costruzione della Torre di Babele. Il gesuita Francesco Bianchini, che era un esperto astronomo, si incaricò di vagliare la faccenda e dovette ammettere che la cronologia degli eventi più antichi era destinata a rimanere imprecisa. Escogitò allora un nuovo sistema di valutazione: invece di rifarsi alle eclissi che gli ebrei non avevano ricordato, mentre i cinesi sì, cercò di utilizzare i reperti archeologici per stimare lo scorrere del tempo. Nella sua Istoria universale abbondano figure appoggiate a colonne, archi, e via seguitando. Ma sono molte le figure che animano le cronologie e le cronografie: l´immagine del profeta Daniele, per esempio, o un enorme drago che rappresenta il quarto millennio, nella Storia universale di Johann Buno (1672). Il visionario Gioacchino da Fiore divideva la storia in periodi: tre grandi epoche, di cui l´ultima, dominata dallo Spirito Santo. Gioacchino meditava il futuro. A diversi secoli di distanza Giambattista Vico si prese l´incarico di sottoporre a critica le antiche credenze divulgate da Eusebio. Uomini e fatti mai esistiti, decretò Vico, furono immaginati per vanità da chi era a caccia di nobili antenati. Gli antichi non sapevano nulla degli inizi del mondo e dunque inventavano. Uno che certamente inventò molte cose di sana pianta fu un certo Annio di Viterbo, letterato e falsario. Sembra una simpatica canaglia. Nel 1498 pubblicò una serie di ventiquattro testi con commento e tavole genealogiche compilate in modo da compiacere i suoi mecenati. Papa Alessandro VI Borgia si trovò a discendere da Iside e Osiride e i Longobardi ebbero un passato che li collocava all´origine del mondo (i leghisti non si sono comportati molto diversamente). Il grande viaggio nelle cartografie del tempo, di cui qui si è data un´idea inevitabilmente succinta, arriva fino ai nostri giorni. Una cronologia della storia dell´arte contemporanea è stata ideata per la nascita del MoMa di New York e molte sono le linee del tempo anche negli anni Duemila. Il tempo simultaneo del telegrafo fu disegnato nel 1912 grazie agli apparecchi in uso sulle navi in quel momento. C´era anche il Titanic, ma sapere dov´era non bastò a salvarlo. La linea del tempo, non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre.

4. LA BELLA ADDORMENTATA

l’Unità 27.7.12
Tre italiani a Venezia
Bellocchio, Comencini e Ciprì in lizza nella sezione ufficiale
di Alberto Crespi
qui

Corriere 28.7.12
La scelta di Bellocchio: sette giorni nell'Italia di Eluana
«Ma è finito il tempo dei film di denuncia»
di Paolo Mereghetti

«Io non descrivo solo paesaggi, sono anche un cittadino, ho l'obbligo di parlare del popolo, delle sue sofferenze, del suo futuro». Interrogato sul suo nuovo film in concorso a Venezia, Bella addormentata, Marco Bellocchio cita una battuta del Gabbiano di Cechov (che diresse per la Rai nel 1977) per spiegare — se mai ce ne fosse bisogno — il fatto di aver scelto il «caso Englaro» come tela di fondo della sua ultima regia. «Nel febbraio del 2009 — continua — sono rimasto fortemente colpito, come tanti immagino, dalla determinazione di Beppino Englaro, di voler mettere fine all'odissea della figlia Eluana, ridotta allo stato vegetativo da 17 anni, non nel silenzio di qualche sotterfugio legale, ma rivendicando un diritto che aveva conquistato dopo una lunga battaglia: voleva fare la cosa giusta nel rispetto delle leggi».
È nata qui l'idea del film?
«No. Allora ero troppo coinvolto emotivamente. Troppo dentro alle cose. Mi sono messo a scrivere una specie di farsa grottesca sul nostro Paese. Si intitolava Italia mia e anche se il protagonista non si chiamava Berlusconi era evidente che si ispirasse a lui. Proponendola, però, ho ricevuto troppi dinieghi. Non piaceva. Nessuno voleva produrla. Così mi è tornata in mente la storia di Eluana».
Una ricostruzione storica o una rielaborazione personale. O tutte e due, come aveva fatto con «Buongiorno, notte» sul caso Moro?
«Della realtà ho conservato solo la cronologia: i sette giorni che vanno dal 3 febbraio, quando Eluana lasciò Lecco dove era ricoverata per raggiungere la casa di cura La Quiete di Udine, fino al 9 febbraio, quando la ragazza ha cessato la sua vita vegetativa. Mentre passano quei giorni, scanditi dalle televisioni di mezzo mondo, io racconto tre storie diverse: quella di un senatore del Pdl e di sua figlia, quella di una tossicodipendente che vuole mettere fine alla sua vita e quella di un'attrice francese che ha una figlia in coma».
Quando ha scelto di raccontare queste storie, si è sentito addosso una qualche responsabilità «morale»? Il caso Englaro aveva diviso l'Italia e scatenato un conflitto di potere tra governo e presidente della Repubblica...
«Sarei falso se mi attribuissi qualche ruolo maieutico rispetto alla società. Cerco solo di rispondere alle mie emozioni creando personaggi e situazioni che possano restituirle al meglio sullo schermo. Con gli anni cerco di regalarmi il massimo di libertà possibile e farmi tirare per la giacca solo dalla forze delle immagini e dei personaggi. Certo, quello che dice Trigorin nel Gabbiano a proposito del suo essere "un cittadino" non l'ho mai dimenticato, ma senza rischiare l'autocensura. Quarant'anni fa, quando giravo Nel nome del padre, ero molto più preoccupato di essere corretto, di dire "la cosa giusta"».
Oggi è diventato scorretto?
«Oggi mi sento più libero. Anche di inventare, di introdurre nei film scene eccentriche. Prenda il personaggio di Servillo: è un ex socialista entrato nelle file del Pdl. Il suo governo gli chiede un voto contro coscienza per impedire la morte di Eluana e lui non vuole tradire le proprie convinzioni. Così mi sono inventato che sotto il senato ci sia un improbabile bagno turco e in mezzo a questi fumi lo metto a confronto con Roberto Herlitzka, uno psichiatra a metà strada tra Andreotti e Musatti, sapiente, saggio ma anche abile fino al cinismo nella gestione del potere».
Perché questo titolo: «Bella addormentata»?
«Perché volevo che lo spettatore, alla fine di un film tutto costruito sullo scontro tra la vita e la morte, pensasse che c'è anche la possibilità che qualcuno riesca a svegliarsi, a sconfiggere la morte. Non mi riferisco certo a Eluana Englaro, non me lo permetterei mai, ma la storia di Rossa e di Pallido, di Maya Sansa e di Pier Giorgio Bellocchio, potrebbe, dico potrebbe, far pensare a un risveglio: lei è una ragazza autodistruttiva che cammina pericolosamente sul cornicione della vita, lui è un giovane medico deciso a salvarla ad ogni costo...».
Resterà deluso chi temeva (o sperava) un film di denuncia...
«Oggi il cinema di denuncia, quello che ha fatto grande il nostro cinema negli anni Sessanta e Settanta mi sembra fuori tempo massimo. Irrimediabilmente. Le Gabanelli, i Santoro e certo giornalismo televisivo gli hanno tolta la terra (e le storie) da sotto i piedi. Il cinema arriverebbe in ritardo su tutto. Meglio un percorso più mediato e meditato».
Comunque per «Bella addormentata» le polemiche non sono mancate, grazie alle censure di Provincia e Regione sull'operato della Film Commission del Friuli.
«Ho girato sette settimane, delle dieci previste, in Friuli trovando una grandissima collaborazione da parte del sindaco di Udine, che ci ha permesso di fare delle riprese anche davanti alla casa di cura La Quiete. Mai il più piccolo problema di intolleranza o di disturbo da parte dei friulani. Solo la giunta provinciale e poi quella regionale ci hanno negato dei permessi e sono arrivati a cancellare l'attività futura della Film Commission. In questo modo non hanno bloccato i finanziamenti al film, che sono stati ottenuti rispettando regole e procedure, ma impediranno il lavoro dei tecnici e delle maestranze friulane nei prossimi anni. Con che lungimiranza politica, lascio agli elettori decidere».
Nessun problema a tornare a Venezia, dopo le polemiche per il «mancato Leone» a «Buongiorno, notte»?
«Nessun problema. Alla mia età se non viene messo in concorso ti sembra di subire una specie di elegante giubilazione. Meglio scommettere sul valore del film e se va male, pazienza: il giorno dopo hai già dimenticato tutto».

Repubblica 22.8.12
Il regista parla del film “Bella addormentata” con cui sarà in gara alla Mostra di Venezia
Parla Bellocchio
“Racconto l’Italia del caso Englaro senza offendere nessuno”
di Natalia Aspesi

MILANO È un momento di disperato coraggio, tutto racchiuso in un solo, veloce, semplice gesto: si preme un bottone, ogni rumore innaturale, meccanico, svanisce, il viso sbiancato dalla sofferenza della persona che ha appena sussurrato a chi l’ama, “aiutami! ” si distende, grato, pacificato. Marco Bellocchio sta raccontando con molta cautela il suo nuovo film, Bella addormentata, e accenna a questa scena, «che nulla ha a che fare con la fine di Eluana Englaro. Infatti mentre l’Italia era in fiamme attorno a un corpo spento da 17 anni, in altri ospedali o cliniche o case, senza clamore, per amore, per pietà, per necessità, altri bottoni venivano premuti, altre macchine fermate, altri corpi restituiti al loro dignitoso reale destino. «Certo quei 7 giorni cruciali del 2009, dal 3 al 9 febbraio, dal momento in cui il corpo di chi era stata Eluana arrivò alla clinica Villa Quiete, di proprietà del comune di Udine, dove sarebbe cessata la sua vita artificiale, mi avevano molto colpito. Soprattutto mi aveva conquistato il padre Peppino, che come altri, avrebbe potuto agire in silenzio, e invece pretendeva pubblica giustizia, voleva il consenso della legge». E la magistratura gli aveva dato ragione. «Ma si sa, in Italia non si governa se non col Vaticano, che naturalmente non era d’accordo, quindi non poteva esserlo neppure il premier Berlusconi. In qualche modo il signor Englaro l’ha aiutata nella stesura della sceneggiatura? «No, ci siamo solo parlati; nel film non c’è il suo personaggio, né nulla che riguardi Eluana. Né lui ha visto Bella addormentata, e non sarà a Venezia alla sua presentazione. Subito dopo forse dialogheremo insieme per un settimanale». Come si costruisce un film su un evento così clamoroso senza mostrarlo? «Io mostro ciò che tutti hanno visto e saputo attraverso giornali, televisione, internet: l’Italia spaccata in due, i filmati dei bivacchi notturni davanti alla clinica, con i canti religiosi e i cartelli di insulti e le candele accese e le carrozzine dei malati come a Lourdes, con appesi al collo cartelli con le scritte “uccidi anche me! ”; e la polizia che cercava di tenere separati i devoti dai sostenitori di Englaro e del principio dell’eutanasia». In quei giorni le televisioni portavano nelle case, incessantemente, gli scontri di Udine ma anche quelli al Senato, e i discorsi macabri del premier Berlusconi che parlava delle mestruazioni di Eluana e della sua possibilità di avere figli. Quindi quell’evento drammatico, così italiano nella dimensione cinica e ipocrita di una maggioranza impegnata a riconquistare la benevolenza del partito vaticano, non è stato che lo sfondo per raccontare altro? «Come in altri film, per esempio Buongiorno, notte sulla fine di Aldo Moro, mi piace inventarmi anticorpi, non falsificare, ma correggere la realtà, andare oltre l’evento. Ormai i mezzi di informazione ci raccontano tutto, ci assediano con la ripetitività instancabile della cronaca. Al cinema resta il compito di approfondire, interpretare, dare un senso». Attorno al labirinto delle ragioni della vita e della morte, ha intrecciato più storie. «Toni Servillo è un senatore della maggioranza non sufficientemente cinico e anche per ragioni personali, per votare una legge imposta dal suo partito che impedirebbe di staccare la spina. Ci fu davvero un senatore del Pdl del Friuli, regione che ha una tradizione socialista laica, amico di Englaro, che avrebbe votato contro se la legge fosse poi stata discussa. Sua figlia Alba Rohrwacher ha ragioni di rancore molto personale per unirsi a chi prega davanti alla clinica per impedire che il destino di Eluana si compia». Sino dai Pugni in tasca le famiglie dei suoi film sono problematiche, mentre la religione ha spesso una sua fatale presenza. «Isabelle Huppert nella sua bella casa assiste il corpo assente di quella che fu la sua bellissima figlia, respingendo il figlio e il marito, recitando scompostamente il rosario con le infermiere, odiando disperata le proprie lacrime, mimando una fede che non ha per poter credere in un miracolo che non avverrà. La Huppert è un’attrice difficile, ma meravigliosa: a differenza di tante sue colleghe che si sono rovinate, ha avuto la grande intelligenza di non manipolare la sua faccia, di porgere intatta la sua bellezza che l’età e la bravura stanno sfumando in un fascino assoluto». Eppure nel suo film alla fine vince la vita. «Quella ricca di risorse ma bruciata dalla droga di Maya Sansa che tenta il suicidio. Pensa di avere il diritto di morire, come lo ha avuto Eluana, ma sarà la cocciutaggine di un giovane medico, mio figlio Piergiorgio, a imporle il suo diritto a impedirglielo». Pensa che ci saranno contestazioni alla Mostra di Venezia? «Non credo: quando giravamo a Udine il comune ci ha aiutato, non c’è mai stato un problema con la gente: hanno cercato di ostacolarci, senza sapere nulla del film, la Provincia e la Regione, addirittura cancellando per punizione la Film Commission che ci aveva già dato il finanziamento. Non mi pare che il mio sia un film che possa offendere nessuno, soprattutto se invece di parlarne a vanvera, lo si va a vedere. Del resto nessuno dei miei film è mai stato sequestrato, magari ha provocato discussioni. Ma persino L’ora di religione la cui sola censura in televisione fu eliminare due bestemmie, ha avuto dalla sua parte molti cattolici».

Repubblica 14.8.12
Huppert, Divina Madre al capezzale della figlia nel film di Bellocchio
“In Francia si parla di eutanasia, ma senza Vaticano”
di Laura Putti

ROMA Eterea, filiforme, luminosa nello sconvolgente pallore, Isabelle Huppert è perfetta nel dare corpo alle ossessioni. In Bella addormentata, il film di Marco Bellocchio in concorso alla Mostra di Venezia, è nel ruolo di una grande attrice che ha rinunciato alla carriera, e anche alla vita familiare e sociale, per dedicarsi a sua figlia. Solo che, da anni, la ragazza dorme in un letto circondata da suore infermiere e da una madre ossessionata dalla reversibilità del suo profondo coma. Nel film di Bellocchio, sullo sfondo del quale — attraverso immagini televisive, notizie radiofoniche e battute dei personaggi — scorrono i sei ultimi giorni di vita di Eluana Englaro, Isabelle Huppert è la Divina Madre. «Già questo nome, e il fatto che al personaggio non fosse stato attribuito un nome proprio, mi hanno incuriosito» dice l’attrice al telefono da New York dove sta girando un film indipendente, un’opera prima ( La sparizione di Eleanor Rigby di Ned Benson, con Jessica Chastain, James McAvoy e William Hurt). La Divina Madre è una signora borghese che vive in una casa molto bella. È sposata (il marito è Gianmarco Tognazzi) e ha un altro figlio (Brenno Placido), ma non è più moglie né madre. «Ha rinunciato ai piaceri, compreso quello di recitare, alle seduzioni terrene, all’amore materno quotidiano. Suo figlio vorrebbe fare l’attore, ma lei non può ascoltarlo. È come blindata nel suo dolore e quando si soffre così tanto si può arrivare a una durezza che sembra insensibilità». La ragazza è in casa, non in ospedale, circondata da cure e attenzioni continue. «Vuole tenersela vicina, deve continuare a fare parte della sua vita quotidiana. La Divina Madre pensa che la figlia la veda e senta le sue parole, e vive nella speranza, nella follia, nell’ossessione che si sveglierà. Invece ogni giorno muore un po’ anche lei». Ha mai pensato, durante le riprese, a come si sarebbe comportata in una tragedia analoga? «Neanche per un attimo». La Divina Madre è il secondo dei tre episodi che si incrociano (attraverso il montaggio di Francesca Calvelli) in Bella addormentata, ed è anche il più simile alla vicenda di Eluana Englaro. Isabelle Huppert dice di non avere pensato a Parla con lei di Almodòvar. Neanche il nostro fatto di cronaca l’ha ispirata direttamente. «Il dibattito sull’eutanasia, non riconosciuta legalmente, è vivace anche in Francia, ma la scelta individuale da noi ha un peso; non abbiamo il Vaticano in casa. È sorprendente come in Italia la vicenda di una ragazza in coma si sia trasformata in un caso politico e religioso». Nel film, almeno nel suo episodio, la religione è importante. Marco Bellocchio ha avuto una solida educazione religiosa e sa di cosa parla. «La Divina Madre va in chiesa, prega, si spinge fino al misticismo. Incita le suore a pregare più forte per ridare vita a quella figlia, bellissima, per la quale ha distrutto la sua famiglia, si è separata da tutto. Bellissima è anche la sua casa. Teatrale, maestosa, monumentale, con lunghi corridoi. Si capisce è stata un’attrice di successo, che in un passato recente ha guadagnato molto denaro. Scivolando in silenzio per i corridoi la Divina Madre è tentata di guardarsi allo specchio, e lo fa: la cosa alla quale ha rinunciato ancora la tenta, ma crede che proprio grazie a questa rinuncia, a questo estremo sacrificio, sua figlia si sveglierà». L’espiazione, la colpa: concetti cristiani. «Siamo portati a pensare che una tragedia accada perché siamo colpevoli di qualcosa. Anche questa è in fondo l’ossessione del mio personaggio». Marco Bellocchio racconta che durante le riprese gli attori (Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Pier Giorgio Bellocchio, tra gli altri) hanno improvvisato. «Non io. Prima di tutto perché, pur essendo francese, il mio personaggio parla in italiano, ed è difficile improvvisare in una lingua non propria; poi perché non ne ho sentito il bisogno. La sceneggiatura era perfetta e Marco Bellocchio è preciso nelle inquadrature e attento ai dettagli. Qualità dei grandi registi. Girare con lui è stata un’esperienza formidabile».